Viviamo in un’epoca che glorifica lo sport ed eleva chi lo pratica ad alti livelli al rango di star, a cui sono destinati riconoscimenti simbolici e materiali esclusivi. Di contro, chi se ne astiene viene accusato di pigrizia, indolenza, eccentricità; quasi un deviante in una società che fa dell’attività fisica un pilastro economico ed emotivo fondamentale per il proprio funzionamento. Allo sport sono associati valenze positive anche dal punto di vista salutistico. Medici ed esperti ci dicono ripetutamente che praticare attivamente uno sport “fa bene” alla salute e prolunga la vita. Non di rado viene considerato una sorta di panacea e il suo rifiuto è assimilato a una sorta di suicidio personale.
Eppure, alcuni studi (o suggestioni di studi) insinuano il dubbio che le cose non stiano davvero in questi termini. Prendiamo il calcio.
Secondo un progetto di ricerca portato avanti dal neuropatologo Willie Stewart, i calciatori professionisti, una volta appese le scarpette al chiodo, avrebbero una probabilità cinque volte superiore alla media di sviluppare una qualche forma di demenza e una probabilità tre volte e mezzo superiore alla media di morire a causa di questo problema. La causa di tale inclinazione nefasta sarebbero i ripetuti contatti tra testa e pallone caratteristici del gioco del calcio. In altre parole, i colpi di o alla testa sortirebbero sui poveri calciatori gli stessi effetti negativi che i pugni ricevuti in combattimento hanno sul cervello dei pugili.
Stewart ha messo a confronto i decessi di 7.676 ex calciatori del campionato professionistico scozzese, nati tra il 1900 e il 1976 (gruppo sperimentale), con quelli di 23.000 persone della popolazione generale (gruppo di controllo), tenendo sotto esame variabili importanti quali il sesso, l’età e la classe socioeconomica di provenienza. I risultati, secondo Stewart, avallerebbero l’interpretazione secondo cui gli ex calciatori avrebbero una probabilità cinque volte maggiore di contrarre il morbo di Alzheimer, quattro volte maggiore di contrarre una malattia del motoneurone e due volte maggiore di contrarre il morbo di Parkinson rispetto alla popolazione generale. Al tempo stesso, la buona notizia è che chi pratica il calcio avrebbe minori probabilità di morire di malattie cardiache o di cancro ai polmoni.
Lo studio di Stewart, commissionato dalla Football Association e dalla Professional Footballers’ Association, sembra sia stato ispirato dalla scomparsa dell’ex attaccante del West Bromwich Albion Jeff Astle, morto a soli 59 anni e afflitto da una forma di demenza. Immediatamente, la Scottish Football Association ha valutato la possibilità di proibire il gioco del calcio ai minori di 12 anni, mentre c’è chi teme che il colpo di testa possa essere bandito per sempre dai fondamentali di questo sport.
Le cose in realtà non sono chiare. Al di là della rappresentatività o no del campione di Stewart e della correttezza della sua metodologia, che cosa deve intendersi per “colpo alla testa”? Ogni colpo di testa è un colpo alla testa? Incornare un pallone in rete è la stessa cosa che ricevere una violenta pallonata in pieno viso? Così come ogni calciatore è diverso dall’altro quanto a stile, dribbling e visione di gioco, è probabile che sia diverso anche quanto a propensione al gioco aereo. Insomma, la scienza è ancora lontana dal pronunciare un giudizio definitivo su uno dei fondamentali dello sport più amato del mondo.
Peraltro, lo studio di Stewart non è il primo a indicare nei calciatori una categoria particolarmente incline a certi tipi di malattie.
Qualche tempo fa, uno studio condotto da Elisabetta Pupillo ed Ettore Beghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con Nicola Vanacore dell’Istituto Superiore di Sanità e con l’Associazione Italiana Calciatori (AIC), rilevò una preoccupante correlazione tra gioco del calcio e insorgenza di degenerazioni neuronali, come la SLA, confermando un timore che serpeggia da tempo nel mondo del calcio dopo i casi Borgonovo e Signorini, tanto per fare due esempi. Si pensi che in Italia sono stati registrati quasi 50 casi di calciatori affetti da sclerosi laterale amiotrofica.
Lo studio italiano, come quello di Stewart, esprime una correlazione, naturalmente. E correlazione non significa causazione, come non si stancano di ricordarci gli scienziati. Inoltre, gli studi finora effettuati non sono esenti da pecche, che vanno dalla scelta del campione (spesso poco casuale) a quella del gruppo di controllo (acquisito spesso più in base alla disponibilità dei dati che al rispetto di criteri scientifici), dalla definizione precisa della variabile da indagare (come nel caso dei “colpi di/alla testa” di cui sopra), alla possibile influenza di variabili intervenienti, al ruolo di altri fattori come traumi specifici, predisposizioni genetiche e altro ancora.
Insomma, prima di trinciare giudizi sulla pericolosità del calcio e suggerire imposizioni e divieti, assicuriamoci di disporre di risultati provenienti da ricerche metodologicamente impeccabili. Il rischio è quello di prendere decisioni drastiche e frettolose sulla base di studi che suscitano più di qualche dubbio. Uno scenario non insolito in un’epoca in cui si pretendono vaccini in tre mesi e la pazienza, arma segreta di ogni impresa scientifica, viene sacrificata sull’altare della tempestività irriflessa.