Bob Black esiste davvero. Come vi dirà perfino Wikipedia, è un anarchico americano, nato a Detroit nel 1951 e autore di diversi testi. Il suo nome è uno pseudonimo. Quello vero è Robert Charles Black Junior. Attualmente vive come avvocato e la sua reputazione presso gli anarchici sembra controversa. Non mi interessa, però, discutere la sua biografia. Basta con gli argumenta ad hominem. Mi interessano di più le sue idee, quelle espresse nel breve scritto The abolition of work (1985) che traduco qui, anche se traduzioni in italiano già esistono. Un “lavoro” sprecato, qualche buontempone potrebbe suggerire. Non credo. Tradurre è una forma di appropriazione e la traduzione di questo testo, in particolare, mi ha permesso di approfondire una tematica su cui mi capita spesso di riflettere, spesso in maniera non convenzionale. Anzi, direi nettamente anarchica.
Il lavoro, dunque. E la sua abolizione.Diciamolo chiaramente. La maggioranza di noi fa lavori di merda (bullshit jobs, come li chiama l’antropologo David Graeber), caratterizzati da una incessante monotonia, ripetibilità e obbligatorietà. Non siamo liberi di fare quello che ci piace, né, per lo più, di variare quello che facciamo o di farlo quando ci aggrada. L’essenza del lavoro, come afferma Bob Black, è l’obbligatorietà: ogni lavoro che si “rispetti” (le virgolette connotano ironia: io non rispetto quasi nessun lavoro) nella nostra società ci è imposto da qualcuno o qualcosa. E già questo semplice fatto dovrebbe renderli odiosi. Il lavoratore è uno schiavo a tempo parziale. Il capo, mormora ancora Bob Black, gli dice quando presentarsi sul luogo di lavoro, quando andare via e che cosa fare tra l’entrata e l’uscita. Il capo gli dice quanto lavoro svolgere e a che ritmo. Questo non vale solo per i lavori manuali, ma anche per quelli di “concetto”, i lavori da impiegato, da funzionario pubblico o quadro aziendale, quelli dei “più fortunati”. Quando lavoriamo, entriamo in una dimensione irreggimentata, che è una gabbia reale e metaforica. Reale perché siamo costretti per buona parte della giornata, anzi del nostro “tempo da svegli” (gli inglesi dicono waking hours), a occupare uno spazio fisico in cui non entreremmo mai se non vi fossimo costretti dalle “dure necessità della vita”, a frequentare persone che probabilmente non frequenteremmo mai se non vi fossimo costretti dalle “dure necessità della vita”, a svolgere mansioni che non svolgeremmo mai se non vi fossimo costretti dalle “dure necessità della vita”. Metaforica perché la gabbia diviene un habitus mentale, un modo di vedere il mondo che condiziona tutta la nostra esistenza, che ne siamo consapevoli o no.
Non solo, ma la “gabbia” occupa la parte migliore e potenzialmente creativa del nostro “tempo da svegli”. Quando torniamo a casa, tutto ciò che sappiamo fare è riprenderci dal lavoro, per poi prepararci a tornarvi. Siamo tutti così intorpiditi da ore di inutilità imposta che non sappiamo fare altro che guardare catatonicamente la televisione o il tablet o al più fare una vacanza, che, in realtà, anche se andiamo all’altro capo del mondo, non farà altro che renderci ancora più funzionali al lavoro. “Staccare la spina”, diciamo. Ma quando torniamo, la riattacchiamo e ricominciamo. Siamo sempre attaccati a una macchina. Lo dicono perfino le nostre metafore. Il tempo libero è non lavoro per il lavoro.
Il problema è che – è ancora Black a ricordarcelo – noi siamo quello che facciamo. Se lavoriamo tutta la vita a produrre capocchie di spillo o atti burocratici, la nostra vita sarà una capocchia di spillo o un atto burocratico e diventeremo individui “noiosi, stupidi e monotoni” che avvizziscono sempre più fino al pensionamento, periodo in cui non sapremo più cosa fare (oltre ad essere vecchi e malati) e dedicheremo il resto della nostra esistenza (se ce ne sarà ancora una) ad accudire nipoti (per chi li avrà) e a occuparci di altre simili cretinerie welfaristiche, magari nella speranza che anche ai nipoti accada quello che è accaduto a noi: un posto fisso (oggi una chimera) cui dedicare quaranta anni della loro vita (gli anni migliori creativamente). Il lavoro così come lo concepiamo oggi rincretinisce, come nemmeno televisione, tablet e smartphone sanno fare. Il bello è che, in una epoca di crisi come la nostra (ma ci sono periodi in cui non c’è una crisi? Anche i periodi di boom economico sono tali solo retrospettivamente), le persone aspirano a entrare nelle gabbie rincretinenti del lavoro, a lasciarsi disciplinare per tutta la vita da altri, a vedere atrofizzata la propria propensione all’autonomia, a entrare a far parte di una gerarchia – le gerarchie non sono solo militari – e a permettere ad altri di addestrarli all’insegna della magica parola “disciplina” che è solo un eufemismo per schiavitù. La chiamano “autonomia” (quanta ironia in questo termine), “etica del lavoro”, ma è solo sottomissione rivestita da parole che hanno un suono suadente (etica del lavoro, appunto, disciplina, rispetto, lealtà), controllo semi-totalitario dell’esistenza – anzi totalitario perché, come detto, anche il cosiddetto “tempo libero” è funzionale al lavoro (“staccare la spina”, sì) – controllo scandito da sorveglianza, ripetitività, ritmi di lavoro obbligatori, quote di produzione, cartellini da timbrare in entrata e in uscita.
Ma perché pensate che gli impiegati pubblici non timbrino il cartellino, vadano a fare la spesa o in piscina durante l’orario lavorativo, si mettano in malattia per andare a giocare a tennis? Sono tutti atti di resistenza, forme di ribellione all’ingabbiamento, al torpore della monotonia, al tempo che non passa mai, all’inutilità della vita impiegatizia, alla mancanza di motivazione (altro termine psicologico di gran moda: i capi sono sempre alla ricerca della ricetta migliore per motivare, ossia per accalappiare). Per lo stesso motivo, gli impiegati sabotano, rubano penne e risme di carta sul posto di lavoro, usano computer e fotocopiatrici per “farsi i cazzi propri”. Atti di resistenza. Viscerali, certo. Talvolta, nemmeno consapevoli, ma atti di pura resistenza, che, non a caso, ogni ministro della funzione pubblica, appena insediatosi, tenta di reprimere per ripristinare la disciplina, il controllo, l’ordine.
“Loro vogliono il tuo tempo”, grida Black. Anche se hai finito prima il tuo lavoro, devi rimanere in ufficio, perché è il tuo dannato tempo che vogliono. Quello che potresti dedicare a svolgere un’attività davvero creativa e salutare e che, invece, devi trascorrere nelle loro gabbie. I più considerano ciò una fortuna (“Almeno ho un lavoro”, dicono), si dichiarano contenti di essere “risorse umane” (ma sapete che le risorse sono cose?), “impiegati” (ma sapete che “impiegato” è participio passato di “impiegare”, cioè usare?), “dipendenti” (participio presente di “dipendere”), “funzionari” (ossia “destinatari di una funzione” come una macchina), ma che fortuna si può avere facendo sempre la stessa, inutile, imposta, noiosa cosa tutta la vita? Sì, “vogliono il tuo tempo, ne vogliono quanto basta per impossessarsi di te”. E alla fine diventi un loro possedimento, un oggetto nelle loro mani e sei felice del lessico spregevole e schiavistico che ti descrive (“Ragazzi, sono un impiegato!”). E ringrazi pure, naturalmente.
Dovremmo ribellarci a questa situazione. Ma non ne abbiamo le forze, né il tempo (troppo occupati a lavorare o a cercare un lavoro, troppo alienati, per rispolverare una parola che oggi sa di cassetto delle cose vecchie). E allora continuiamo a dedicarci ai nostri lavori di merda. E a soffrire per questo.
Ma ricordate che per smettere di soffrire, dobbiamo smettere di lavorare. Parola di Bob Black.
Attualmente la tecnologia ci consentirebbe di lavorare tutti , e per non più di 3 o 4 ore al giorno ma la classe dirigente ( criminale ) non lo consente .
Sono tutte belle parole, ma quasi mai, quando leggo discussioni del genere, leggo delle proposte concrete.
A mio avviso c’è poco da fare:solo attendere che il progresso faccia il suo corso.
Siamo stati sfortunati in tal senso a nascere 100-200 anni in anticipo, in quanto con molta probabilità tra 2 secoli il lavoro sarà completamente sostituito dalle macchine, ma nello stesso modo siamo stati fortunati a non nascere 100-200 fa quando le condizioni di lavoro odierne, per gli occhi di un operaio di metà ‘800, sono quasi utopiche.
Figurati parlare di 8 ore di lavoro, 1-2 giorni a settimana a casa o effettivamente lavorare per 11 mesi all’anno, ma essere retribuiti spesso per 13 mensilità o anche 14 mensilità.
Il progresso è lento, le conquiste sociali spesso fanno due passi in avanti e uno indietro, ma il futuro lo vedo positivo in tale senso, ma essendo giustamente, da un punto di vista, opportunisti vogliamo tutto e subito. Purtroppo non si può. Ripeto: purtroppo siamo nati troppo presto.
L’unica cosa su cui ci sarà da discutere è come avverrà la transazione.