La storia può avere una funzione terapeutica. Può essere adoperata, ad esempio, per “guarirci” da convinzioni infondate, come quella che determinate istituzioni sociali esistano da sempre in determinate forme. Pensiamo alle Olimpiadi.
Come osservano gli storici Finley e Pleket in un delizioso libricino I giochi olimpici (Editori Riuniti, 1980), nel 1896 si tennero ad Atene i primi giochi olimpici moderni, i quali, però, non avevano molto di genuinamente “olimpico”. C’erano quarantadue gare in dieci sport con 285 partecipanti, tutti uomini, senza competizioni a squadre tranne la ginnastica. Ma solo le gare di corsa, il salto in lungo, il lancio del disco e la lotta erano “presi a prestito” dai giochi originari; le altre gare erano sconosciute agli antichi o non erano incluse da essi nei giochi più importanti.
Altro mito che riconduciamo alla antica Grecia è quello della torcia olimpica. In realtà, nella pratica dei greci antichi, non c’era nulla che giustificasse la torcia olimpica, portata in giro per mezzo mondo come simbolo dell’internazionalismo olimpico. Nell’antichità le corse con la torcia erano staffette puramente locali; squadre di uomini nudi, con la fronte ornata di diadema, portavano per le strade, da altare ad altare, torce accese su impugnature metalliche. Nulla più. Né gli antichi gareggiavano su distanze molto lunghe. La maratona ha origine da una leggenda famosa: un ateniese, il cui nome appare diverso in varie versioni del racconto — Fidippide nella versione più nota — nel 490 a C. corse i 42 chilometri fino a Maratona per partecipare alla battaglia contro gli invasori persiani, poi tornò di corsa ad Atene per informare della vittoria e mori stremato dalla fatica.
Altra differenza rispetto ai giochi moderni è che, mentre questi cambiano sede ogni quattro anni, quelli antichi non abbandonarono mai Olimpia. Inoltre, le Olimpiadi antiche furono tenute ogni quarta estate senza interruzioni, nonostante le guerre e gravi difficoltà politiche in vari periodi, fino almeno al 261 d. C: oltre mille anni dalla fondazione, tradizionalmente e credibilmente datata al 776 a.C. I giochi moderni, invece, sono stati cancellati tre volte, nel 1916, 1940 e 1944, a causa di due conflitti mondiali.
Lo spirito olimpico del passato, ancora, non aveva niente di “sportivo” come lo intendiamo oggi. Ciò che contava era essere sempre i primi e superare gli altri. Non c’erano un secondo o terzo posto, una medaglia d’argento o di bronzo; non essere il primo significava perdere, e questo era tutto. Né aveva molta importanza se la vittoria era riportata con una superiorità schiacciante o con un lancio modesto o in un tempo mediocre. Non si registravano mai i primati in questo senso: in greco non c’era neppure il modo di dire “stabilire un record” o “battere un record”. I primati che importavano erano il numero delle vittorie riportate da un atleta durante la sua carriera o il fatto che non era mai stato messo a terra in un incontro di lotta.
Alla regola di onorare soltanto il primo c’erano rare eccezioni in particolare nel pentathlon, e oltre a queste una sola eccezione significativa: nelle corse a cavallo e sui carri, in cui il vincitore era il proprietario, non il guidatore. Allora gli atleti potevano essere orgogliosi di vincere il secondo o anche il quarto posto, ma solo se avevano vinto anche il primo. Per il resto la partecipazione alle gare era un fatto strettamente individuale. Giochi di squadra non furono mai introdotti, e a quanto pare mai presi in considerazione. La gloria non poteva essere divisa con partner, ma soltanto, dopo la competizione, con la propria famiglia, i propri antenati, e con la propria città.
Non è nemmeno vero che gli atleti dell’antichità fossero tutti “dilettanti”. I vincitori olimpici venivano ben ricompensati dalle loro città, e atleti strettamente professionisti erano liberi di partecipare in condizioni di assoluta parità con tiranni e aristocratici. Col passare degli anni furono introdotti in misura sempre crescente i cosiddetti “concorsi a premio”, con ragguardevoli compensi in denaro, che alla fine erano oltre trecento.
Veniamo ai giochi veri e propri. I greci non conobbero mai il salto in alto e la corsa a ostacoli, né facevano saltare i cavalli in incontri competitivi. La corsa dei carri era la gara di apertura, dopo il primo giorno dedicato ai preparativi e al culto. Seguiva la corsa olimpica dei cavalli. Il pomeriggio del secondo giorno era destinato al pentathlon, che si gareggiava nello stadio con la probabile eccezione della lotta, disputata negli spazi aperti attorno all’altare di Zeus. Dalla seconda metà del VI secolo a. C., inoltre, tutti i concorrenti furono nudi e scalzi quando correvano, saltavano o lottavano sulla sabbia. Le gare del pentathlon erano: il disco, il salto in lungo da fermo, il giavellotto, la corsa dei 200 metri e la lotta.
Il pomeriggio del terzo giorno era riservato a tre gare dei giovani: la corsa dei 200 metri, la lotta e il pugilato. La mattina dell’ultimo giorno di gara era interamente occupata dalle tre corse, 200 metri, 400 metri e gara di fondo (4.800 metri), tenute tutte nello stadio. Infine, l’ultimo pomeriggio, arrivava il momento dei rudi e popolarissimi sport corpo a corpo, la lotta, il pugilato e il pancrazio. I tre sport erano brutali, per non dire violenti, in diversa misura. C’erano poche regole, non esistevano limiti di tempo né un ring. Non c’erano neppure categorie di peso, sicché il confronto al massimo livello si restringeva a uomini grossi, molto muscolosi e rudi. Il pugilato antico era più feroce della versione moderna. Gli spettatori andavano per vedere il sangue e lo ottenevano.
A proposito degli spettatori, non era facile controllare decine di migliaia di greci eccitati, ammassati in un’area relativamente ristretta. C’era un corpo ufficiale di uomini dotati di frusta che tenevano l’ordine sia tra gli spettatori che tra gli atleti. Era essenziale controllare anche gli innumerevoli venditori ambulanti.
Ai giochi antichi la folla era partigiana, volubile ed eccitabile come in qualsiasi altra epoca. E si sprecavano le condanne dell’irrazionalità dei tifosi, ieri come oggi. «Nessun cavallo correrà più lentamente se vi comportate con decoro», ammoniva il famoso oratore Dione di Prusa, noto come Dione Crisostomo («Boccadoro»), in una pubblica orazione ad Alessandria poco dopo il 100 d.C. «Chi può descrivere le vostre grida, l’eccitazione e lo spasimo, i contorcimenti del corpo e i gemiti, le orribili imprecazioni che lanciate? Se non foste ad assistere a una semplice corsa di cavalli — e cavalli che sono abituati a correre — ma foste incalzati dalla sferza della tragedia, non sareste agitati così crudelmente».
Dobbiamo, infine, demistificare anche il mito della purezza dei giochi antichi. La corruzione esisteva e come! Anche se, nelle testimonianze rimaste, i casi accertati sono relativamente pochi. Il più antico fu nel 388 a.C, quando Eupolo di Tessaglia comprò tre pugili, uno dei quali era il vincitore dei giochi precedenti, perché gli facessero vincere il premio. Nel caso successivo, mezzo secolo dopo, un pentatleta ateniese vinse con mezzi simili. La città di Atene mandò a Elide il suo più eminente oratore e politico, Iperide, a invocare la sospensione della multa. Non ebbe successo, e la città stessa versò il denaro, ma soltanto dopo che Apollo, a Delfi, aveva minacciato di non pronunciare più oracoli per Atene finché ciò non fosse stato fatto. Nel 68 a.C. Rodi soccorse nello stesso modo un lottatore.
Soltanto per l’età imperiale troviamo affermazioni di carattere generale che parlano di corruzione diffusa. Uno scrittore del III secolo d.C, Filostrato, lamenta che atleti abituati a una vita di lussi preferivano perdere le gare per denaro invece di affrontare le fatiche necessarie per vincere e ottenere il denaro dei premi; che allenatori corrotti li incoraggiavano prestando loro denaro a usura e poi combinando gli imbrogli per avere assicurata la restituzione. Lo stesso scrittore aggiunge che i giochi olimpici erano immuni da tale malcostume. Curiosamente, il malcostume non era mai associato al gioco d’azzardo. I greci erano giocatori entusiasti, specie con i dadi, e le scommesse tra spettatori sono già menzionate nel racconto omerico dei giochi funebri per Patroclo. Ma non c’erano allibratori né associazioni professionali, e la corruzione era di fatto limitata agli atleti stessi o alle loro famiglie, con l’obiettivo di vincere una gara, non una grande scommessa. È anche curioso che la corruzione dimostrata dopo la gara non privava il vincitore del titolo e della corona, per quanto severe potessero essere le punizioni cui egli era esposto in altra sede. Queste consistevano in: multe, esclusione dai giochi e fustigazione.
Finley e Pleket ci insegnano che la visione che abbiamo dei giochi olimpici antichi è più mitica che reale. La convinzione oggi diffusa che l’immoralità e la corruzione dilaghino nello sport contemporaneo come mai nel passato è fondamentalmente errata. Gli antichi non erano necessariamente più puri e onesti di noi. Anzi, forme di comportamento approvate nel passato sarebbero oggi considerate intollerabili.
La storia ci permette di vedere la vita con occhi più smaliziati e di relativizzare gli eventi in funzione del contesto. Il mondo non è stato sempre come lo conosciamo oggi, né gli uomini, le donne, le istituzioni. Non si tratta solo di date, nomi, battaglie ed eroi. La storia significa soprattutto modi diversi di vedere il mondo e le persone. E allora anche istituzioni come le Olimpiadi greche, se studiate con gli occhiali dello storico, ci appaiono molto diverse da come ingenuamente pensiamo che siano.