Nel 1969, il Presidente americano, Richard Nixon, rimprovera il Giappone di esportare una quantità eccessiva di tessuti negli Stati Uniti e invita il Primo Ministro giapponese Sato a Washington per discutere della faccenda. “Il Giappone” – afferma con forza Nixon – “deve porre un freno alle proprie esportazioni”.
Le cronache raccontano che Sato abbia volto lo sguardo al soffitto e abbia risposto: Zensho shimasu, una frase che, presa alla lettera, vuol dire: “Farò del mio meglio”, come annunciò lo stesso interprete ufficiale del politico giapponese. Il problema è che il significato principale delle due parole è, in realtà, “Non se ne parla proprio”, analogamente alla frase italiana “Come no!” che può essere adoperata ironicamente per significare un diniego assoluto (“Me lo fai un favore?”, “Come no!”)
Nixon credette di aver risolto il problema, ma, quando il Giappone continuò i suoi flussi di esportazione come al solito, si dice che abbia definito Sato un bugiardo.
Simili equivoci culturali e linguistici si verificano spesso.
Sempre in giapponese, ad esempio, Eii doryoku shimasu significa qualcosa come “Ci proveremo”, ma la realtà è che chi la pronuncia vuole dire spesso che non ha intenzione di fare nulla. Allo stesso modo, se un alto burocrate giapponese afferma che prenderà shoyo no gutaiteki sochi, ossia “misure necessarie e concrete”, vuole in realtà dire che non ha intenzione di fare nulla.
L’episodio di Nixon e Sato ricorda quello di Truman e Suzuki all’epoca dello scoppio della bomba atomica nel 1945. In quel caso, la parola centrale fu mokusatsu, interpretata dai più come un atto di spregio nei confronti dell’ultimatum lanciato al Giappone dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Il risultato furono le tristi vicende di Hiroshima e Nagasaki che ho raccontato nel mio libro 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo.