Lo scorso agosto il ministro dell’Interno Alfano dichiara: «Gli italiani sono stanchi di essere insolentiti da orde di vu cumpra’, dobbiamo radere al suolo la contraffazione». La frase viene immediatamente criticata e il ministro si difende maldestramente ricordando che l’espressione è presente perfino nel dizionario della Treccani (come se i lemmi dei vocabolari avessero una funzione prescrittiva e non di mera registrazione lessicale nei confronti degli utenti). «Non c’è nessun connotato razzista: è stata una grande tempesta in un bicchiere di ipocrisia» conclude Alfano. Come dire che ognuno può usare le parole che vuole. Le parole non sono importanti.
Il 10 novembre scorso, nel corso di un’intervista con la giornalista del Corriere della Sera Adriana Bazzi, Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Farmacologico Mario Negri di Milano del Corriere, esprime la sua opinione sul mancato decollo in Italia dei cosiddetti “farmaci generici”: «Chiamarli generici è stato un errore. Il termine dà l’idea che il farmaco vada bene per tutto e non abbia specificità. E questo ha creato diffidenza fra i medici e i malati e ne ha rallentato l’introduzione». Meglio usare “equivalente”. Ingenera meno dubbi e potrebbe favorirne la diffusione.
Le due vicende descritte appaiono distanti anni luce l’una dall’altra, ma hanno qualcosa di importante in comune: le parole. O meglio il loro uso. Usare le parole non è mai un gesto privo di importanza. Produce sempre delle conseguenze. Ad esempio, favorire il razzismo e il disprezzo nei confronti dei migranti (soprattutto se pronunciate da un ministro) o inibire la diffusione di farmaci efficaci, ma “frustrati” dall’etichetta con la quale sono noti. Le parole sono i costituenti del nostro essere in società, modalità di azione sociale, volani dello stare insieme. Costruiscono la realtà in cui viviamo e la rendono quella che è. Solo che, sin da piccoli, ci dicono che le parole sono come il vento, che non sono importanti. Perché contano solo i fatti. Le stesse cose che dice la politica oggi (“Noi facciamo, loro parlano”). Ma anche queste sono parole, che costruiscono una certa versione dei fatti: una versione in cui si dice che le parole non sono importanti. E invece contano. Contano maledettamente. E non c’è Alfano che tenga.
Più leggo più mi rendo conto di quanto le parole formino la nostra visione del mondo. Spesso ci allontanano dalla verità (pur parziale) delle cose, che risiede più nei numeri, nelle percentuali. Non dico che anche questi ultimi non siano manipolabili, tutt’altro: basta un’esposizione parziale o una massificante che non preveda categorie per dimostrare il contrario della realtà. Ma le parole costruiscono il sapore del mondo, il flavour delle nostre idee in un modo impossibile per i numeri. E siccome contano più le pulsioni e le emozioni della logica il potere delle parole sarà sempre enormemente maggiore di quello dei numeri. Sono andato a braccio, spero di non aver scritto cavolate, dottore.
Sono d’accordo. Dirò di più. Le parole non costituiscono solo il flavour delle nostre idee, ma sono gli ingredienti principali del nostro essere. Una verità da cui non traiamo quasi mai le dovute conseguenze.