Racconta Martha Nussbaum in Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge (Carocci, 2005):
Frank Small ebbe una lite con C. R. Jacoby nel saloon di Keyser. Jacoby uscì dal saloon incamminandosi per la via con la moglie. Mentre stava allontanandosi, Small andò verso di lui, gli puntò la pistola alla testa e gli sparò. Due giorni dopo Jacoby morì. Nel tentativo di ottenere una riduzione nel grado dell’omicidio, da assassinio a omicidio preterintenzionale, Small sostenne di essere stato mosso da un impulso ad uccidere a causa di un veemente accesso di rabbia originatosi nel momento della lite e protrattosi fino all’azione fatale. Nel processo d’appello, dopo essere stato condannato per omicidio di primo grado in prima istanza, l’imputato sostenne che la Corte aveva sbagliato perché non aveva istruito la giuria popolare sui fatto che alcune persone ritrovano la calma più rapidamente di altre, dopo una lite. La Corte suprema della Pennsylvania respinse la contestazione sollevata in tale modo: «Supponiamo quindi di ammettere una testimonianza a sostegno del fatto che l’imputato è un uomo irascibile, violento e vendicativo; ebbene? È questa forse una scusa per il crimine commesso? Può in qualche modo costituire una circostanza attenuante? Certamente no, perché questi tratti derivano da una mancanza di autodisciplina, da una carenza di autocontrollo che è ingiustificabile» (pp. 37-38).
Non sono pochi, anche in Italia, coloro che ritengono che stati emotivi intensi possano, in qualche modo, giustificare la commissione di un reato violento: ci capita spesso di sentire gli autori di tali reati affermare di “essere stati accecati dalla gelosia” o di “essere stati in preda a un’ira eccessiva”. Simili comportamenti sono, talvolta, condonati anche da alcuni commentatori quando osservano: «Se solo lei/lui non lo/la avesse fatto/a arrabbiare!». Tuttavia, contrariamente a quanto si sente spesso dire nelle conversazioni quotidiane, per la legge italiana (art. 90 del Codice Penale), «gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità» (intendendo per imputabilità, come recita l’articolo 85, la capacità di intendere e di volere). La legge prevede cioè che le persone, purché sane di mente, debbano esercitare un controllo sulla propria sfera emozionale e non debbano cedere a impulsi antisociali in seguito all’azione di passioni ed emozioni.
Gli stati emotivi, come l’amore o la gelosia, per quanto intensi, non sono considerati dalla legge condizioni che diminuiscono o annullano l’imputabilità del reo. Un fatto che potrà sorprendere qualcuno, ma che trova la sua ragione di essere nella volontà del legislatore di impedire a chi si macchia di reati del genere di avvalersi di facili scappatoie giudiziarie: tutti devono assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Questi comportamenti, come ci ricorda Nussbaum, «derivano da una mancanza di autodisciplina, da una carenza di autocontrollo che è ingiustificabile». Eppure, quanti omicidi sono “perdonati” dal senso comune perché commessi in seguito a un “raptus”!
Su questo e altri miti della criminologia quotidiana, rimando al mio recente Delitti. Raptus, follia e misteri. Dalla cronaca alla realtà, un resoconto critico di molte idee comuni sul crimine e la criminalità.