Nel secondo volume delle storie di Don Chisciotte, Cervantes fa incontrare a Don Chisciotte e Sancio Panza una coppia speculare, composta da un cavaliere errante e dal suo scudiero. I due scudieri si separano dai due cavalieri e prendono a discutere delle loro vite. A un certo punto, Sancio Panza parla dei suoi figli:
Io ne ho due – disse Sancio – che si potrebbero regalare al papa in persona, specialmente una ragazza che, con l’aiuto di Dio, tiro su per contessa, sebbene sua madre non ne voglia sapere.
E quanti anni ha questa signorina tirata su per contessa? – domandò l’altro.
Quindici anni, poco più poco meno – rispose Sancio – ma è alta come una pertica, fresca come una mattina d’aprile, e ha una forza da facchino.
Questi sono requisiti non solo per divenir contessa. Ma anche ninfa del verde bosco. Oh figliaccia d’una puttana! Che vigore che deve avere la birbona!
Puttana non è lei e non è stata sua madre – rispose Sancio un po’ impermalito – e puttane, per grazia di Dio, non saranno né quella né quell’altra, finché camperò io. E prego di parlare un po’ meglio, ché per essere stato allevato in mezzo ai cavalieri erranti, che son la cortesia in persona, la Signoria Vostra dice delle parole che non mi paion molto appropriate.
Oh, signor scudiero – esclamò l’altro – come se n’intende poco di lodi e di complimenti Vossignoria! Come?! O non sa che quando un cavaliere dà un buon colpo di lancia al toro nel circo, oppure una persona fa qualche cosa di buono, la gente dice sempre: «Oh, figliuol d’una puttana! Come ha detto nel segno!». E in quel termine invece d’esserci un’offesa, come pare, c’è una lode notevole. Rinnegate, signor mio, quei figliuoli e quelle figliuole che non agiscono in modo che i loro genitori meritino tali titoli!
Ho capito – rispose Sancio – e allora lei la poteva scaricar su me, su’ miei figliuoli, sulla mi’ moglie tutto un casino addirittura; perché quel che dicono e quel che fanno, lo fanno così bene che codesti elogi se li meritano di certo (Cervantes, M. de, 1991, Don Chisciotte della Mancia, Mondadori, Milano, vol. II, pp. 691-692, traduzione di Ferdinando Carlesi).
Il turpiloquio che coglie di sorpresa Sancio è molto noto e va sotto il nome di inversione semantica. In pratica, si prende una parola volgare, un insulto, un termine offensivo e lo si rovescia nel suo contrario. Così, “figlio di puttana”, anziché essere una espressione umiliante, viene adoperata e recepita come espressione elogiativa. Esempi del genere abbondano e hanno spesso significati inclusivi e socializzanti, come spiego nel mio libro Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia. Si pensi alla riappropriazione di termini offensivi come queer (“frocio”) e nigger (“negro”) presso, rispettivamente, le comunità gay e nere degli Stati Uniti d’America. Un tempo demonizzate perché estremamente offensive, queste parole sono oggi utilizzate da molti omosessuali e neri come una sorta di codice interno da adoperare rigorosamente solo in presenza di altri omosessuali e neri. Questo processo “ironico” sta oggi coinvolgendo negli Stati Uniti molte parole interdette: bitch (“troia”) può essere usato come complimento rivolto a una donna; stupid (“stupido”) può significare eccellente. Gli epiteti denigratori sono così risignificati e diventano oggetto di riappropriazione proprio da parte delle categorie sociali e sessuali che ne sono storicamente colpite. Le parole sono trasformate nel loro contrario acquisendo lo status di proiettili che ritornano indietro. Al tempo stesso, gli effetti nocivi di queste parole sono disinnescati, liberando le loro vittime dal veleno subito per anni e sovvertendo le pratiche discorsive ritenute ingiuriose. Sono soprattutto le canzoni rap e i film di registi come Spike Lee a testimoniare di questa diffusione. Sulla scia delle riconversioni semantiche operate dalle comunità americane, anche altri gruppi sociali si riappropriano di etichette negative per convertirle nel loro opposto. I pachistani inglesi danno nuovo significato allo spregiativo paki. Esponenti di associazioni di disabili ostentano con orgoglio epiteti come “folli”, “pazzi” o “down”. Tifosi italiani sventolano bandiere che recano le scritte “gobbi” o “scoppiati”.
Ma è nelle manifestazioni controculturali che è possibile scorgere la fenomenologia più caratteristica di queste tendenze. Il manifesto BITCH, scritto nel 1968 da Joreen, rappresenta uno dei documenti storici del femminismo mondiale e, tra l’altro, recita: “BITCH non fa uso di questa parola in senso negativo. Una donna dovrebbe sentirsi orgogliosa di affermare di essere una Bitch, perché Bitch è bello. Dovrebbe essere un gesto di affermazione personale e non una negazione da parte degli altri”. Altri gruppi femministi riversano i loro sforzi su parole come dyke (“lesbica”), witch (“strega”), spinster (“zitella”) o slut (“sgualdrina”). Quest’ultima, in particolare, sembra essere diventata un’icona positiva del postfemminismo e indica assertività e rispetto di sé. Un altro tentativo di risignificazione femminista è stato compiuto da Germane Greer con il suo scritto I Am a Whore (“Sono una puttana”) esplicitamente mirato a rendere la parola whore un termine sacro che connota positività e incoraggiamento. Secondo alcuni osservatori, queste tendenze linguistiche permetterebbero di mettere in discussione stereotipi e discriminazioni facendo leva sulle stesse colonne linguistiche del razzismo, della misoginia e dell’omofobia. Secondo altri, testimonierebbero dell’ormai avvenuta interiorizzazione del verbo dominante da parte di gay e neri e fornirebbero, quindi, solo una parvenza di riscatto.
Fatto sta che questi processi sono sempre più diffusi nella nostra società e denotano un rapporto nuovo nei confronti di parole fino a qualche anno fa impronunciabili. Senza scomodare, movimenti politici o posizioni intellettuali, è noto che questa tendenza è diffusa anche nella vita quotidiana. Non è raro incontrare ragazze che indossano t-shirts sulle quali è scritto “Sono una troia”. O giovani e adulti che si scambiano affettuosamente parole che, in altri contesti, sarebbero percepite come estremamente volgari.
Il turpiloquio, dunque, è un fenomeno sociale e culturale molto più complesso di quello che dicono i moralisti. Ed è proprio in virtù di questa complessità, come Cervantes aveva intuito, che non potrà mai essere rimosso dal linguaggio.