Si discute in questi giorni del libro di David Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, Feltrinelli, in cui l’autore sostiene una tesi apparentemente rivoluzionaria: le elezioni andrebbero abolite e i componenti del Parlamento andrebbero scelti non più con il meccanismo elettorale, ma affidandosi al sorteggio. Questo perché le elezioni, lungi dall’essere il momento più rappresentativo dell’agire politico democratico, ne rappresentano forse l’inganno più subdolo. Noi crediamo di vivere in una democrazia perché andiamo a votare, ma il voto, a pensarci bene, non è uno strumento tanto democratico. Perché? Per rispondere a questa domanda, non saccheggerò il libro dello scrittore belga, ma andrò indietro nel tempo a un testo ormai dimenticato, ma, come succede spesso con i testi dimenticati, estremamente attuale. Mi riferisco a Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) del politologo italiano Gaetano Mosca. Quasi 150 anni fa, Mosca ci diceva:
Che il deputato sia scelto dalla maggioranza degli elettori è una supposizione legale che, per quanto formi la base del nostro sistema di governo, per quanto sia ciecamente accettata da molti, pure si trova in perfetta contraddizione col fatto reale. Questa verità è alla portata dell’osservazione di ognuno. Chiunque abbia assistito ad una elezione sa benissimo che non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che sono i suoi amici che lo fanno eleggere. Ad ogni modo questo è sicuro che una candidatura è sempre l’opera di un gruppo di persone riunite per un intento comune, di una minoranza organizzata che, come sempre, fatalmente e necessariamente s’impone alle maggioranze disorganizzate.
Ciò su cui dobbiamo insistere è la necessità del fatto, perché che esso avvenga tutti convengono, e basterebbe a provarlo la cifra degli elettori, che vanno alle urne, che spesso, se non sempre, sono una minoranza. Ma anche se vi andassero tutti non trionferebbe già il volere della maggioranza. Per accadere ciò bisognerebbe, prima di tutto, che i più avessero l’indipendenza di criterio necessaria a formarsi un giudizio proprio e l’indipendenza di carattere indispensabile per farsi da esso guidare; o che tutti almeno avessero, distribuite in uguali porzioni, queste due qualità. Or abbiamo bisogno di rammentare che nel mondo vi sono gli intelligenti e gli stupidi, gli istruiti e gli ignoranti, gli scaltri e gli imbecilli, i ricchi e i poveri, e che uno dei primi guida, ordinariamente, molti degli altri? Ma anche se ciò non fosse, non per questo il trionfo della maggioranza sarebbe meno impossibile. Il trionfo della maggioranza in un’elezione politica, alla quale partecipano migliaia di persone, vorrebbe dire l’accordo fortuito dì una quantità grandissima di volontà, che nessun modo hanno d’intendersi e di coordinarsi. Or si sa benissimo che i molti spesso, senza intendersi, concordano in una passione; e quando un’elezione fosse lo sfogo di una passione, sarebbe probabile che la maggioranza trionfasse; ma nei casi ordinari in cui è una scelta a sangue freddo, un giudizio, un’opinione, allora i voleri della maggioranza non hanno più alcuna probabilità di coincidere, di essere identici, e le minoranze organizzate, che facilmente possono intendersi e scambiar la parola d’ordine, debbono necessariamente trionfare.
Si fa spessissimo rimprovero alle maggioranze di questa loro passività nelle elezioni, ma non si riflette che ciò è inevitabile. Teoricamente ogni elettore ha la più ampia libertà di scelta, ma nel fatto essa è limitatissima; poiché, a meno che non voglia disperdere il suo voto, egli non può darlo che ad uno di quei due o tre candidati, o ad una di quelle due o tre liste, che hanno probabilità di risultare, perché appoggiati da un nucleo di seguaci e d’aderenti. Quindi agli elettori isolati, che non fanno parte di alcun nucleo disciplinato, e che sono l’immensa maggioranza, non resta che o astenersi dal votare, oppure dare il loro voto ad uno dei candidati possibili, lasciandosi guidare da una anche lieve simpatia d’idee o di persona, o più ordinariamente dal beneficio di qualche piccolo favore ricevuto o da ricevere. Nell’uno e nell’altro caso essi sono quasi assolutamente passivi.
Adunque che il risultato di un’elezione sia l’espressione della volontà del paese, ossia della maggioranza degli elettori, è, nei casi ordinari, una cosa assolutamente falsa: e la base legale o razionale di qualunque sistema politico, che ammette la rappresentanza della grandi masse popolari determinata dalle elezioni, è una menzogna. La verità invece è che la vittoria, in elezioni così fatte, resta agli elementi che meglio si sanno imporre in quel tale ambiente speciale, e spesso artificiale, che dallo stesso sistema elettivo è creato. Perciò noi esaminando e giudicando i deputati, non li avremo mai per i rappresentanti del paese, ma sebbene di questi tali elementi che, benché del paese faccian parte, pur sono molto lontani dal comprenderlo tutto (Scritti politici, Utet, vol. I, pp. 476-478).
Dopo aver letto queste frasi pensiamo ancora che eleggere sia democratico?
«Non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori». Ricordiamolo, la prossima volta che andiamo a votare.