Ho già discusso in un post precedente del cosiddetto “effetto alone” (in inglese, halo effect), termine con il quale si indica, in psicologia, il fenomeno per cui un’impressione generale, sia positiva sia negativa, o una singola caratteristica di un individuo o gruppo sociale orienta la percezione che si ha dell’individuo o gruppo, anche relativamente ad altri tratti di personalità. Ad esempio, si ha effetto alone quando la bellezza fisica condiziona la percezione di altre qualità della persona quali l’intelligenza o la professionalità. Oppure, quando si crede che un esperto in un certo settore debba essere esperto anche in un altro settore. Oppure, quando il crimine commesso da un individuo condiziona la percezione complessiva della personalità di questi.
L’effetto alone trova moltissime “applicazioni” nella vita quotidiana. Un suo uso frequente è nell’ambito del marketing, dove viene adoperato consapevolmente dai pubblicitari per rendere più appetibile un prodotto commerciale e, quindi, invogliare le persone all’acquisto. L’effetto alone, tuttavia, è adoperato pure dal negoziante sotto casa, anche se probabilmente non è a conoscenza della denominazione tecnica del fenomeno.
Pensiamo alla frutta che acquistiamo ogni giorno. Chi la vende sa benissimo che, in ognuno di noi, agisce un potente meccanismo interiore per cui tendiamo a pensare che la frutta più buona sia anche quella più bella. Si tratta del vecchio principio, diffuso a livello popolare sin dai tempi di Platone, secondo cui “ciò che è bello è anche buono” e che trova insospettabili applicazioni anche in campo ortofrutticolo.
Come? Dando, ad esempio, una bella lucidata di cera alimentare alle mele. O cospargendo di foglie – che danno un tocco “naturale” – i limoni. O spruzzando acqua sui meloni. Oppure, ancora, proiettando luci colorate sulla frutta in modo che appaia come ci aspettiamo che debba apparire, se non di più. In questo modo, i limoni appaiono più gialli di quanto non siano, le pere più verdi, le arance più arancioni e le mele più rosse. Una grossa “cospirazione” artificiale per rendere i prodotti più “naturali” o, almeno, per fare in modo che l’aspetto della frutta combaci il più possibile con la nostra idea di “naturale”.
Questo nel migliore dei casi, vale a dire, quando l’opera di make-up condiziona solo la percezione della merce. In altri casi, sono adoperate sostanze che hanno lo scopo di far apparire frutta e verdura più succulente, saporite e, ancora una volta, “naturali”; sostanze ammissibili, ma che non siamo contenti di far entrare nel nostro corpo (difenolo, antimicrobici ecc).
Un capitolo a parte è poi quello del trattamento a scopo pubblicitario del cibo. In questo caso, l’aspetto è alterato per promuovere la vendita della merce tramite spot o cartelloni. Si pensi alla glicerina e alla lacca adoperate per far apparire più lucenti mele e melanzane. Alla schiuma da barba usata per rendere più cremose le torte. Al ghiaccio finto inserito nelle bibite per farle apparire più desiderabili. All’olio di motore sparso sui pancakes per far sembrare il miele o lo sciroppo più densi, al lucido da scarpe marrone per colorare gli hamburger, alla colla versata sui cereali per farli apparire più “in sintonia” con il latte.
Contrariamente a quello che la nostra mente inconscia ci suggerisce, quando si tratta di cibo, non è sempre vero che “ciò che è bello è anche buono”. Il principio, tuttavia, è talmente tenace che alcuni biscotti alle nocciole e meringa, tipici del Nord Italia e non molto attraenti allo sguardo, sono noti con il nome di “brutti ma buoni”, una scelta che è un tentativo di scalfire l’istintiva resistenza a mangiarli in base alla mera estetica, richiamando fortemente la bontà “interiore” del prodotto. Paradossalmente, il nome di questi biscotti rafforza lo stereotipo del bello = buono, evocando la logica dell’eccezione (non sono belli, ma sono buoni, almeno in questo caso) a testimonianza della forza irresistibile del principio platonico che condiziona perfino il modo in cui percepiamo il cibo.