Quello di Samuel Adolphus Cartwright (1793–1863), medico statunitense, attivo soprattutto nel Mississippi e nella Louisiana dell’America anteriore alla guerra civile del 1861, è probabilmente un nome sconosciuto ai più. In effetti, la sua attività professionale non lasciò tracce imperiture in patria, né, tanto meno, nel resto del mondo. I suoi testi, però, meritano attenzione in quanto rappresentano un caso esemplare di come un comportamento deviante possa essere letteralmente creato dal nulla.
Quando il medico americano pubblicò nel numero di maggio del 1851 del rispettabilissimo New Orleans Medical and Surgical Journal, l’articolo intitolato “Report on the Diseases and Physical Peculiarities of the Negro Race” (“Relazione sulle patologie e sulle caratteristiche fisiche della razza negra”), egli battezzò infatti una patologia destinata a passare alla storia, la drapetomania, della quale provvide immediatamente a fornire una definizione:
Drapetomania viene dal greco δραπέτης, “schiavo fuggitivo” e da μανια, folle o matto. La parola è ignota alle nostre autorità mediche, sebbene il suo sintomo diagnostico, la fuga per evitare di svolgere il proprio dovere, sia noto a coltivatori e sorveglianti, come era noto agli antichi greci, i quali, con la sola parola δραπέτης, vollero esprimere sia l’atto del fuggire sia il rapporto esistente tra il fuggiasco e la persona dalla quale egli fuggiva. Ho aggiunto alla parola che significa “schiavo fuggitivo”, un’altra parola greca, per intendere la patologia mentale che induce lo schiavo alla fuga.
La drapetomania è dunque la malattia mentale che induce gli schiavi “negri” alla fuga. Un «disturbo mentale non dissimile da altri tipi di alienazione mentale», anche se, aggiunge consolatorio Cartwright, «molto più curabile».
Se sono trattati con affetto, nutriti e vestiti adeguatamente, forniti di quanto basta per accendere un po’ di fuoco la notte, suddivisi in famiglie, ogni famiglia a casa sua, senza permettere loro di uscire la notte, di visitare i vicini, di ricevere visite, di ubriacarsi, e senza sovraffaticarli o esporli eccessivamente alle intemperie, [i negri] si lasciano governare molto facilmente, più di tante altre persone al mondo. […] È sufficiente tenerli in questo stato e trattarli come bambini, con cura, affetto, attenzione e umanità, per prevenire e guarirli da ogni tentativo di fuga.
Per Cartwright, tutto parla chiaro: il “negro” è schiavo per natura. Lo afferma la storia, che ci dice che, in ogni luogo e in ogni tempo, il “negro” è stato assoggettato al bianco; lo affermano le scienze della vita, secondo cui il “negro”, abbandonato a sé stesso, può solo regredire verso una condizione barbara, mentre, nelle mani del bianco, recupera forza e senso dell’esistenza. Lo afferma, però, soprattutto la Bibbia, a saper leggere con attenzione le storie che essa contiene. Come quella narrata in Genesi 9, 25 dove si apprende che Noè aveva tre figli, Sem, Cam e Iafet, e che Canaan, il figlio di Cam, progenitore di tutti i “negri”, fu condannato a essere servo dei servi dei suoi fratelli. In questo modo, la schiavitù dei neri diviene un fatto inscritto nello stesso nome dei neri nei secoli dei secoli. Se, dunque, per Cartwright, la schiavitù è connaturata al “negro”, si capisce come i suoi tentativi di emanciparsi da tale condizione debbano apparire “innaturali”, “folli”, “criminali”. Di qui la necessità di forgiare un nome che descriva tale abominio.
Per chi fosse preso dalla tentazione di definire “pazzo” il medico americano, dobbiamo ricordare che molti altri prima di lui avevano espresso le stesse opinioni, a partire da Aristotele, che pure è additato da tutti i libri di filosofia a modello pedagogico per eccellenza, il quale era convinto che la schiavitù fosse un fatto “naturale”, proprio come la subalternità della donna all’uomo.
Ciò che colpisce dell’invenzione di Cartwright, però, è soprattutto una cosa: la condanna, in lui esplicita, di quella che è sempre stata l’aspirazione esistenziale principale dell’uomo: l’aspirazione alla libertà. Questa riduzione di desideri esistenziali comprensibilissimi in quanto tali a “sintomi oggettivi” impersonali che compongono una costellazione chiamata “malattia mentale” rivela parecchie cose: rivela una distanza culturale, psicologica, sociale enorme tra il soggetto che descrive e inventa la malattia/devianza e l’oggetto descritto/inventato; rivela la fede assoluta in un senso comune – quello dello schiavista – mai messo in discussione, anzi rafforzato dalla invenzione della nuova malattia, che diventa la gruccia concettuale sulla quale far reggere un sistema di idee precario e facilmente demolibile in termini logici e psicologici: quello dello schiavista; rivela la facilità con la quale un sistema concettualmente precario è in grado di tirare dal cilindro nuove definizioni, diagnosi, leggi, etichette, “mostri” di varia natura (nel senso etimologico del termine) a esso necessari per puntellare la propria architettura mentale e materiale. In ultima analisi, rivela la funzione eminentemente sociale, politica e conservatrice della psichiatria schiavista dell’Ottocento, arma ideologica finalizzata a conservare l’ordine esistente e conferirgli nuove fondamenta, secondo un modello che anticipa gli usi che della psichiatria saranno fatti, ad esempio, in Unione Sovietica in funzione repressiva nei confronti dei dissidenti politici.
Se oggi la drapetomania è ufficialmente relegata tra gli esiti mostruosi del razzismo scientifico, essa è ancora presente tra noi, seppure in una forma apparentemente molto diversa. A pensarci bene, il reato di immigrazione clandestina di oggi è l’equivalente della drapetomania di ieri. Ricordiamo che, secondo l’art. 10-bis del d.lgs n. 286/1998, l’ingresso ovvero la permanenza nel territorio dello stato dello straniero in violazione delle disposizioni amministrative che ne regolano l’accesso e il soggiorno configura una contravvenzione punita con la pena dell’ammenda da 5 mila a 10 mila euro o con la pena sostitutiva dell’espulsione. Al di là del diverso vocabolario – psichiatrico nel caso della drapetomania, giuridico nel caso dell’immigrazione clandestina – mi sembra palese che, come la drapetomania intendeva punire lo schiavo che osava fuggire in cerca di una condizione migliore, così il reato di immigrazione clandestina intende punire l’immigrato per il solo fatto di voler fuggire dalla sua condizione di vita in cerca di una migliore. Anche noi, dunque, abbiamo la nostra drapetomania, per quanto facciamo di tutto per dimenticarlo. Ecco perché è importante, secondo me, leggere le pagine in cui Cartwright descrive la drapetomania. Perché quelle pagine riflettono una tendenza che il potere, in ogni tempo, ha incarnato: quella a produrre nuove devianze per conservare i propri, vecchi interessi. Tendenza che oggi come un tempo è viva e vegeta. Perché ogni società, in sostanza, ha i suoi drapetomani.
Il paragone tra la drapetomania e il reato di clandestinità è la perla più bella che abbia mai sentito da quelli come voi. Oggi siamo assolutamente consci e consapevoli che i clandestini scappano da una condizione di vita dura in cerca di una vita migliore, non consideriamo questa cosa anormale o innaturale; a differenza di Cartwright e la società della sua epoca, che consideravano normale la sottomissione del nero al bianco e anormale il suo desiderio di libertà. E non mi pare che la pena per il reato di clandestinità siano 100 frustate, lavori forzati, ecc…Semplicemente il reato di clandestinità è una misura cautelare, serve a prevenire l’ingresso nel nostro paese di gente controproducente, criminali, ecc…per facilitare l’ingresso di gente per bene, e anche a filtrare un po’ questa mega-immigrazione di massa, che mai come oggi e in nessun altro luogo come in Europa ha avuto luogo, e che porterà ad un sovraffollamento nelle strade, nelle città, nei posti di lavoro, a un aumento di degrado urbano e criminalità, e ad una perdita delle nostre radici etnico-culturali, che il solo rrato di clandestinità (tra l’altro altamente ignorato in Italia) non basterà.