Nel mio libro Bizzarre illusioni ho descritto la pareidolia come l’illusione percettiva che porta ad interpretare uno stimolo vago e confuso, sia esso visivo o sonoro, in maniera chiara e riconoscibile. Ogni volta che vediamo in una nuvola un elefante, in una macchia di umidità sul muro un volto noto o in una screziatura sul fondo di una padella un personaggio biblico siamo di fronte a casi di pareidolia. Similmente, possiamo parlare di pareidolia quando crediamo di udire frasi dotate di senso in rumori casuali o in dischi suonati al contrario. Molti casi di avvistamenti di UFO o fantasmi sono imputabili a cause pareidoliche, così come probabilmente il fenomeno del mostro di Loch Ness. È pareidolia quando ci capita di riconoscere nel viso di una persona incrociata casualmente per strada le sembianze di un noto attore cui siamo molto affezionati, ma che sappiamo morto.
Ciò che “vediamo” quando si verificano casi di pareidolia non è mai casuale, ma dipende da conoscenze, aspettative, credenze, convinzioni che possono essere sia soggettive sia culturalmente trasmesse. Ad esempio, la “visione” di UFO nel cielo è possibile a noi contemporanei perché possediamo la nozione di UFO, nata verso la fine della prima metà del XX secolo. In precedenza, le persone non “vedevano” UFO.
A dimostrazione del fatto che le nostre percezioni pareidoliche sono culturalmente determinate è possibile citare questo breve brano, tratto dalla poderosa opera di Keith Thomas, La religione e il declino della magia, relativo a ciò che vedevano gli inglesi del Seicento, intrisi come erano di credenze magiche, religiose e superstiziose, per certi aspetti, lontane dalle credenze magiche e religiose che hanno i nostri contemporanei. Nell’Inghilterra del Seicento, afferma Thomas, era singolare
la propensione dei contemporanei a scorgere in cielo apparizioni d’un tipo a noi negato: cavalli lanciati al galoppo, draghi, eserciti che si scontravano in battaglia. Questi equivalenti dei nostri dischi volanti potevano assumere forme bizzarre, come ad esempio quello visto da due contadine poco prima dei tramonto il 16 aprile 1651: una battaglia in cielo, seguita dall’apparizione di angeli di «colore azzurrastro e delle dimensioni all’incirca di un cappone, con facce (così è parso loro) da civette». Di solito, però, tali apparizioni rivelano semplicemente che nell’allucinazione, non meno che nella visione normale, la percezione umana è condizionata da stereotipi ereditati dalla particolare società di cui gli esseri umani fanno parte. Sino alla fine del Seicento, non ci fu carenza di opuscoli in cui si descrivevano uccelli che svolazzavano sopra i letti dei moribondi, apparizioni che causavano naufragi, eserciti che si scontravano in cielo (Mondadori, 1985, pp. 89-90).
Questo brano presenta vari spunti di interesse. Mi limito a coglierne uno. Neppure il più fantasioso di noi sarebbe in grado oggi di vedere nel cielo “cavalli al galoppo” e “draghi fiammeggianti” perché la nostra cultura è profondamente diversa da quella degli uomini del Seicento, così come questi non erano in grado di percepire UFO perché la nozione non apparteneva al loro mondo. In sostanza, ciò che vediamo non è il riflesso della realtà esterna, ma spesso una nostra costruzione in cui i mattoni sono le credenze che apprendiamo dalla nostra cultura.