Noi viaggiamo per strade e mari al fine di vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi. Ciò accade perché la natura ha così fatto le cose che noi prediligiamo ciò che è lontano e restiamo indifferenti a ciò che è vicino oppure perché ogni desiderio perde d’intensità quando è facile soddisfarlo, o perché ci disinteressiamo di ciò che possiamo vedere quando ci piace, sicuri che ben presto avremo l’occasione di capitarci davanti (Plinio il giovane, Epistolario, Lettera ai familiari).
Questa frase di Plinio il Giovane, citatissima da agenzie e guide turistiche, al punto da essere diventata un luogo comune per gli addetti ai lavori, richiama condotte e atteggiamenti con cui tutti abbiamo estrema familiarità. Più un luogo è lontano, “esotico”, e non solo geograficamente, più ci appare appetibile e più desideriamo visitarlo. E questo da sempre, stando a Plinio, che attribuisce questa caratteristica addirittura alla natura umana.
Così, se, nell’antichità, i romani preferivano come mete turistiche la Grecia, l’Egitto e l’Asia, noi contemporanei preferiamo le Maldive, Zanzibar e gli Stati Uniti, non solo perché distanti, ma anche perché distanti. Più remoto è un luogo, più impegno e tempo richiede arrivarci, maggiore sarà il suo fascino.
La distanza finisce con il conferire valore a una meta turistica solo in quanto distanza. Questo perché «la distanza provoca un effetto alone sui prodotti, trasforma agli occhi dell’osservatore una destinazione in un’esperienza più coinvolgente e meno scontata, in altre parole più “autentica” della solita località di massa, vicina, dove vanno tutti» (Dall’Ara, G., 1990, Perché le persone vanno in vacanza?, Franco Angeli, Milano, p. 48).
Questo fenomeno si accompagna a un altro che è definito “inversione rituale” in base al quale, quando andiamo in vacanza, tendiamo a mettere in atto comportamenti inversi rispetto alla ordinarietà, quasi che il tempo trascorso in luoghi distanti imponesse una sospensione della normalità quotidiana.
Così, se viviamo in un luogo freddo, privilegiamo mete calde. Se adottiamo abitualmente una dieta morigerata, ci diamo alla golosità sfrenata. Se la nostra vita è fin troppo tranquilla, desideriamo il rischio e l’avventura. Se abitiamo nel sud del mondo, siamo attratti dal nord e viceversa (Dall’Ara, 1990, pp. 90-93).
È come se il tempo della vacanza fosse un tempo speciale, un tempo “sacro”, liminale, in cui ritmi e stili di vita si capovolgono rispetto all’ordinario e sperimentiamo inversioni antropologiche, che assegnano un significato diverso alle nostre esistenze.
Si potrebbe quasi dire, al riguardo, che il desiderio di terre lontane e l’inversione rituale abbiano un valore religioso per noi, forse uno dei pochi a cui ancora ci affidiamo nella nostra contemporaneità.
E forse questo vuol dire che andiamo in vacanza non solo per evadere dalla routine quotidiana, per svago, per ricaricare le energie, per compensazione (nel senso che la vita ordinaria genera tensioni che il turismo permette di compensare per sopravvivere), per emulazione, ma anche perché il turismo rappresenta per alcuni di noi l’ultimo rituale che ci consente di muoverci in una situazione fuori dal tempo ordinario, l’ultima Thule della religione, la dimensione postrema in cui solo riusciamo ad avvertire qualcosa di affine a un sentimento numinoso.