“Chi è un disabile? Colui che ti fa credere di essere normale”.
In questo sapido scambio di battute è nascosta una delle verità meno note sulla disabilità. La disabilità non è una condizione individuale, personale, medica e “ontologica”. Non è qualcosa che riguarda semplicemente il disabile. Essa è soprattutto una relazione tra colui che non è disabile e colui che è disabile; una relazione che si esprime in una differenza, uno scarto, una mancata coincidenza di situazioni. Ma anche nel giudizio che viene attribuito a tale differenza o scarto.
Non si darebbe “normalità” se non ci fosse la “disabilità” e viceversa non si darebbe “disabilità” se non ci fosse la “normalità”. Per parafrasare Sartre, la disabilità sono gli altri. Perché senza gli altri, nessuno è disabile. Al tempo stesso, senza gli altri nessuno è normale. Insomma, è l’altro che legittima la mia condizione.
La disabilità è anche relazione sociale perché è nel contesto delle interazioni quotidiane con la società che essa assume il significato che ha. Questo significa che, ad esempio, la tetraplegia diviene disabilità se sono impossibilitato ad entrare nel mio appartamento a causa delle scale che me lo impediscono, della mancanza dell’ascensore, di un qualsiasi ostacolo fisico mi impedisca di fare le cose che tutti i “normali” fanno. E la barriera architettonica è un fatto sociale, non medico.
La disabilità è anche identità in quanto consente alla persona con disabilità di identificarsi o no con la propria disabilità; alla persona “normale” di percepirsi, per differenza, nella sua “normalità”. Ognuno di noi può raggiungere un livello identitario basico, dicendo a se stesso almeno: “Quello/quella non sono io”.
Insomma, non è vero che la disabilità è una afflizione che riguarda il singolo/la singola che ne è colpito/colpita. Una società migliore e inclusiva consente di “normalizzare” la disabilità e impedisce che una menomazione fisica diventi ostacolo a una vita di relazioni.