“Del senno di poi sono piene le fosse”, recita il proverbio. Ma il senno di poi è anche un potente fattore di distorsione cognitiva che ci induce a credere nella maggiore probabilità o addirittura inevitabilità dell’accadimento di un evento, per il semplice fatto che esso è accaduto.
Un esempio piuttosto comune di fallacia del senno di poi si ha quando si giudica in chiave finalistica o teleologica l’evoluzione della vita e si traggono conclusioni sull’esistenza di Dio da un esame retrospettivo di quanto avvenuto in tanti anni di storia della Terra.
Ne parla magistralmente il filosofo Telmo Pievani in un suo sapido libricino intitolato Imperfezione. Una storia naturale.
Il nostro piccolo pianeta, afferma Pievani,
non ha proprio nulla di speciale. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale, la Via Lattea, in mezzo a uno dei suoi bracci periferici, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni. La nostra banale regione è però sufficientemente vecchia (10 miliardi di anni) perché molte stelle di prima generazione hanno avuto il tempo esaurirsi e di esplodere in supernove diffondendo un ricco menù di elementi pesanti nel circondario, il che è quello che conta per noi. Una contingenza locale favorevole, figlia della sequenza precedente di punti critici (Pievani, T., 2019, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 18-19).
Continua Pievani:
Bisogna mettere insieme una combinazione davvero fortunata di condizioni fisiche per mantenere da tre miliardi di anni una temperatura confortevole sulla superficie di una roccia vagante in questo cosmo gelido. Il caso inoltre ha voluto che il Sole ruoti alla velocità giusta, che il suo campo magnetico non sia troppo forte e che nel suo nucleo, alla nascita, vi fosse una quantità di combustibile (idrogeno) sufficiente per circa dieci miliardi di anni. È proprio la stella giusta al posto giusto, dentro la nube giusta.
Sicuri? Questa idea di “giustezza”, cioè avere né troppo né troppo poco di tutto quanto è necessario, può trarre in inganno la nostra mente. Si tratta infatti di un giudizio a posteriori, perché adesso noi siamo qui, sulla Terra, ad ammirare colmi di stupore il cielo stellato e a ricostruire per via scientifica la storia dell’universo. Ma il senno di poi è il peggior nemico per la comprensione dell’evoluzione, perché tende a sottostimare tutti gli innumerevoli esiti alternativi che sarebbero stati possibili a partire dalle stesse condizioni. Il senno di poi fa apparire necessario e compiuto, cioè perfetto, ciò che non lo è per nulla. Ci induce persino a rovesciare la realtà.
Guardando a ritroso una storia contingente, la nostra mente infatti è portata a ragionare nei termini fatalistici del destino e del disegno, selezionando alcuni eventi e non altri. Come se non ci fosse mai stata davvero scelta. Come se tutto fosse stato già scritto nelle carte distribuite all’inizio. Come se la necessità avesse tessuto da sempre la sua tela. Ma l’inevitabilità del risultato è un abbaglio consolatorio del senno di poi, che ci fa inanellare retrospettivamente le cause e gli effetti, il prima e il poi, le intenzioni e le conseguenze.
Il problema è che la nostra mente ci porta proprio a ragionare nel modo seguente: quante coincidenze, cosmiche e personali, si sono dovute realizzare affinché io sia qui in questo momento; ma allora non può essere il frutto del caso, era destino che accadesse. Molti studi sul nostro cervello confermano questa forte attitudine psicologica di Homo sapiens verso animismo e teleologia, cioè il pensare per finalità, il preferire narrazioni in cui agenti intenzionali esibiscono i loro scopi e cercano di raggiungerli. Di conseguenza ci piace, e ci viene più facile, pensare che l’evoluzione cosmica e biologica vada dall’imperfetto al perfetto, dal semplice al complesso, dall’inorganico alla materia che pensa.
Così fantasticando, rimuoviamo dalla nostra consapevolezza il potere dei punti critici, di quelle sottili imperfezioni e rotture di simmetria da cui dipende il corso degli eventi successivi. Se invece facessimo lo sforzo di comprendere l’evoluzione immedesimandoci nelle possibilità che c’erano in un dato momento storico – e poi guardando sia avanti sia indietro, ma sempre a partire dalle potenzialità di quel momento – allora si aprirebbero ai nostri occhi i molti contro-futuri (cioè i contro- presenti dell’oggi) di cui era gravido il passato nei suoi punti critici e nelle sue imperfezioni. Non vedremmo soltanto l’unico presente che si è realizzato, per poi giustificarlo come necessario, predeterminato, “naturale”, persino inevitabile, alla luce del passato, ma apprezzeremmo la bellezza di tutte le storie possibili che non si sono realizzate. I presenti possibili ma irrealizzati sono contingenti rispetto a (cioè causalmente dipendenti da) eventi del passato che non si sono verificati. Sono quelli che i filosofi chiamano controfattuali, versioni alternative e plausibili del passato in cui un cambiamento nelle biforcazioni critiche ha condotto a un esito diverso da quello che si è realizzato nella realtà (Pievani, T., 2019, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 20-22).
Certo, la tendenza a pensare in maniera finalistica è attraente e rassicurante. Cosa c’è di meglio che credere che il nostro essere arrivati sino a qui sia frutto di un disegno concepito da un’entità superiore in grado di conferire senso alle nostre esistenze? È sicuramente allettante lascarci cullare dall’idea che siamo arrivati a questo punto per uno scopo preciso che ci trascende e che ci vedrà protagonisti indiscussi e meritevoli in una qualche forma di aldilà. La nostra vita avrebbe un significato profondo, testimoniato da millenni di storia che ci hanno condotti fino alla soglia presso cui ci troviamo qui e ora. O almeno così ci piace pensare. Si tratta, però, di un’illusione alimentata, fra l’altro, proprio dal senno di poi. Ex post, razionalizziamo ogni accadimento come se rispondesse a un obiettivo preordinato. Ma tale ordine è una nostra costruzione, fatta di percezioni e ricordi selettivi che compongono il quadro che ci piace vedere e la musica che ci piace ascoltare. Il tutto grazie (anche) alla fallacia del senno di poi.
Non a caso Pievani conclude in maniera perentoria: “Il senno di poi è un veleno. Liberiamocene, e anche il futuro ci sembrerà più aperto”. Non è facile, però. Pensare finalisticamente è una tentazione molto ardua da superare.