Che cosa potrebbe essere più innocuo che bere una tazza di tè? Al giorno d’oggi il tè compare nelle nostre diete quotidiane come un elemento ordinario che accompagna la prima colazione, fasi conviviali della giornata, rituali come il “tè delle cinque”. Certamente nessuno accuserebbe il tè di essere una bevanda sovversiva, rivoluzionaria o addirittura criminogena. Eppure, per quanto possa sembrare incredibile, nei secoli scorsi il tè è stato spesso associato a comportamenti scorretti, sconvenienti o inappropriati o a effetti nefasti, come testimonia un interessante, recente articolo di Hadley Meares.
Sconosciuto al di fuori dell’Asia fino al sedicesimo secolo, il tè giunse in Europa in seguito all’inizio degli scambi commerciali tra Oriente e Occidente e quasi immediatamente fu associato in Europa al commercio dell’oppio che stava devastando, all’epoca, l’impero cinese.
Quando, nel 1662, penetrò in Inghilterra, soprattutto per merito di Caterina di Braganza che lo introdusse alla corte del consorte, il re Carlo II, la bevanda attirò immediatamente estimatori e detrattori.
Se molti inglesi ne vantavano i supposti benefici (“Il tè conferisce energia, rende più intelligenti e cura ogni malattia!”), altri sostenevano che affrettava l’invecchiamento e procurava danni agli inglesi, in quanto sostanza estranea alle consuetudini britanniche. Col tempo, si disse che il tè era “pericoloso come l’oppio”, che influiva sulle capacità procreative delle donne, che favoriva gli aborti spontanei e via dicendo. Nel 1737, il Gentleman’s Magazine si produsse in una tirata che oggi può sembrare incredibile:
Anche se fosse perfettamente salubre come il balsamo o la menta, costituirebbe comunque un danno per il popolo sorseggiare acqua calda in maniera effeminata e leziosa una o due volte al giorno […] Così facendo, gli audaci e gli arditi diventano infami, i forti si fanno deboli, le donne diventano sterili, e se si riproducono, il loro sangue diventa cattivo e non hanno più la forza di allattare, e se ce l’hanno, il bambino muore di mal di ventre.
Il tè divenne inviso agli occhi di alcuni detrattori perché di origine straniera, perché considerato poco nutriente e perché si riteneva che causasse dipendenza e conducesse all’alcolismo. Questi giudizi riflettevano una evidente xenofobia che si abbinò a quella per un altro alimento introdotto da poco in Europa e ritenuto altrettanto dannoso: lo zucchero (che faceva ingrassare le persone, anneriva i denti e… cambiava la personalità!).
A partire dal XVIII secolo, il tè cominciò a essere associato a sommovimenti e rivoluzioni e ad acquisire nuovi, minacciosi significati. Nell’epoca della Rivoluzione francese, congiure e insurrezioni erano spesso decise nel corso di riunioni in cui si sorseggiava tè. I critici della bevanda la accusarono di fomentare l’odio tra le classi, di sovvertire gli equilibri familiari (consentendo alle donne di “perdere tempo” a sorseggiare acqua calda e sporca invece di occuparsi delle faccende domestiche), di mettere strane idee nella testa delle persone (come, ad esempio, aspirare a una vita migliore). Il tè divenne, nell’immaginario collettivo, una bevanda proto-femminista, proletaria e rivoluzionaria. Non mancò in Inghilterra chi diceva che, solo abbandonando il tè, la nazione avrebbe riconquistato il vigore di un tempo. L’immagine di gruppi di donne riunite a bere tè, raccontare storie e parlare di politica divenne una delle più sinistre possibili!
Con il tempo, bere tè divenne un’attività altamente ritualizzata, tradizionale e conformista e perse ogni connotazione rivoluzionaria. Oggi, invece, rappresenta qualcosa di molto ordinario, seppure associato a molteplici significati. Da questo breve excursus, appare evidente che l’uomo ha l’abilità di fare di ogni cosa un oggetto “buono” o “cattivo” e di etichettare chiunque come criminale per i più svariati motivi. In criminologia, si parla di teoria dell’etichettamento. Ma, forse, non molti criminologi sanno che è possibile etichettare criminalmente anche una bevanda. Come dimostra la storia del tè.