Nel 1314, racconta Sainte-Foix nei suoi Essais Historiques sur Paris (tom. IV delle sue Oeuvres complètes, pag. 423, Parigi 1778), un toro, avendo incontrato un uomo, lo uccise con una cornata. Carlo, conte di Valois, sulle terre del quale l’avvenimento s’era verificato, ordinò che il toro fosse arrestato e messo in prigione. Dopo di che i giudici della Contea si portarono sopra luogo, presero le informazioni necessarie, udirono i testimoni, e, dopo constatata la verità del fatto e la natura del delitto, condannarono il toro ad essere impiccato. Questa sentenza fu confermata da un arresto del Parlamento di Parigi del 7 febbraio stesso anno. L’esecuzione si fece alle forche patibolari di Moisy-le-Temple, luogo del delitto.
Nel 1386, come si legge nella Statistique de Falaise (1827, tom. I, pag. 83) una sentenza del giudice ordinario di Falaise condannava una troia di tre anni che avea divorato il braccio e il viso del fanciullo Giannetto di Masson, uccidendolo, ad essere mutilata nella zampa anteriore e nella testa, (è la legge del taglione) e poi ad essere impiccata nella gran piazza della città. Charange, nel suo Dictionnaire des Tilres Originaux, riporta la quietanza, con la data del 9 febbraio 1386, rilasciata dal boia di Falaise, nella quale questo dichiara di aver ricevuto dal Visconte di Falaise la somma di 18 soldi e 10 danari tornesi per aver trascinato e impiccato la troia, più 6 soldi tornesi, prezzo di un guanto nuovo, impiegato nella detta esecuzione (Docum. II).
I brani precedenti non sono tratti da un testo di fantascienza che mette in scena mondi impossibili in cui accadono bizzarri avvenimenti senza alcun legame con la realtà, bensì dal volume di Carlo D’Addosio, Bestie delinquenti, pubblicato nel 1892 e interamente dedicato ad alcuni episodi poco noti del Medioevo, ma non per questo meno veri. In sintesi, in quell’epoca, che alcuni ancora considerano oscura come se la nostra fosse perfettamente razionale, i tribunali di Francia, Italia, Svizzera e altre nazioni processarono e condannarono maiali, cani, ratti, cavallette e lumache incriminati per aver commesso reati contro persone, proprietà e divinità. Questi processi erano di due tipi: (1) secolari e riguardanti animali colpevoli di aver mutilato o ucciso esseri umani; e (2) ecclesiastici e riguardanti animali come topi e locuste scomunicati per aver devastato o compromesso raccolti.
Ma, nel Medioevo, gli animali non comparivano solo come “assassini” o devastatori di proprietà e raccolti, ma anche come testimoni. Come fa notare ancora D’Addosio:
Una disposizione legislativa, emanata da Radamante re dei Cretesi, e riferita da Pastoret, stabilisce che quando gli abitanti avranno da giurare, dovranno ricorrere alla testimonianza di un cane, di un ariete e di un’oca. Qualcosa di simile e di meglio troveremo poi nel medioevo. Né questa disposizione sembra strana, quando si pensa come allora fosse ferma persuasione, che l’animale, essere intelligente e morale, avrebbe certamente saputo in qualche modo ingegnoso smentire colui che, invocando la sua testimonianza, giurasse il falso, contrariamente alla verità e alla giustizia. Questa persuasione dovette, al certo, essere cosi radicata nel popolo, che la sola presenza dell’animale, la cui testimonianza era invocata, bastava per far sì che ognuno giurasse il vero.
Come è spiegabile tutto ciò? Come è possibile che, in una data epoca storica, gli animali siano stati ritenuti colpevoli di reati e condannati per questo come se fossero stati in grado di intendere e di volere? Le testimonianze del tempo ci assicurano che questi accadimenti non erano affatto parodie o scherzi e che coinvolgevano veri giudici e veri boia e avevano conseguenze reali (vere esecuzioni). C’era il mandato di arresto, il carcere preventivo, la traduzione in giudizio, l’escussione delle prove e la requisitoria. Secondo alcuni autori, la punizione degli animali rimandava a una visione del mondo animistica o magica in cui le bestie erano considerate creature dotate di intenzioni e scopi, seppure in maniera poco chiara. Secondo altri, questi animal trials si svolsero solo in periodi di crisi eccezionali, in cui le persone percepivano la propria esistenza come estremamente precaria e avevano bisogno di ripristinare un ordine che avvertivano minacciato. Gli animali, dunque, come le streghe, servivano da capro espiatorio per placare una situazione strutturale di insicurezza. La scomunica degli animali avrebbe avuto invece lo scopo di rafforzare la fede nel potere della Chiesa e stimolare la consegna della decima da parte di strati sociali abbrutiti dalle misere condizioni di vita. Secondo D’Addosio, invece, «nel medioevo si punì l’animale perché lo si ritenne in certo modo conscio delle sue azioni, in certo modo libero, in certo modo responsabile» (p. 146).
Quale che possa essere la spiegazione, la vicenda degli animal trials rende chiaro che anche il rapporto degli uomini con gli animali è soggetto al mutare delle forme storiche e delle concezioni criminologiche degli uomini. Atteggiamenti e comportamenti nei confronti degli animali che oggi riteniamo bizzarri o folli, possono avere avuto un senso per le donne e gli uomini del Medioevo che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare, come è evidente dal proliferare di teorie sulle ragioni sottostanti ai processi medievali degli animali. Un capitolo sicuramente da approfondire perché ci dice molto sulla capacità umana di creare mondi culturali che, a distanza di tempo, appaiono estranei come storie di fantascienza.
Per approfondimenti rimando almeno a:
Carlo D’Addosio, 1892, Bestie delinquenti, Luigi Pierro, Napoli.
Gennaro Francione, 1996, Processo agli animali. Il bestiario del giudice, Gangemi, Roma.
Edward Payson Evans, 2012, Animali al rogo. Storie di processi e condanne contro gli animali nel Medioevo e nell’Ottocento, Res Gestae, Milano.