«Trasparenza! Trasparenza!» reclamano a gran voce i cittadini chiedendo conto della condotta dei propri rappresentanti politici. «Trasparenza! Trasparenza!» esige sdegnata la moglie di fronte al tentativo del coniuge di celarle l’sms sospetto che potrebbe rilevarle la realtà dei sentimenti del marito.
Tutto deve essere trasparente al giorno d’oggi per essere accettabile e credibile. E se la trasparenza dovesse sfociare nell’osceno, meglio ancora. Perfino l’oscenità, anzi la pornografia, è preferibile al velo (in particolare quello esibito dalle donne islamiche), al sotterraneo, al non detto, al non rivelato. Di qui ammonimenti alla trasparenza, decisioni, decreti, giudizi trasparenti. Leggi sulla trasparenza. Si pensi al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 che definisce la trasparenza come “accessibilità totale” ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
“Accessibilità totale”: una espressione che fa quasi paura, soprattutto se dalla legge si passa alla vita privata delle persone. È però chiaro che a molte persone il concetto piace. Come si spiegherebbe altrimenti il fenomeno dei reality televisivi in cui è applaudito chi è più autentico, spontaneo (al limite del peto via etere), rozzo, sguaiato, burino, che insomma concede l’accessibilità totale alla propria esistenza, recessi più intimi e fetidi compresi? Senza peli sulla lingua, ma anche senza indumenti. Senza inibizioni, ma anche senza cervello. Certo, una persona interamente priva di inibizioni sarebbe un selvaggio non civilizzato. Ma l’incivile è preferibile a chi è troppo civile, a chi si nasconde dietro un paravento qualsiasi, anche se questo paravento si chiama “dignità”.
Decisamente, il segreto e l’opacità non vanno più di moda. Almeno, stando alle retoriche pubbliche più diffuse a cui non sempre corrispondono i comportamenti dei privati, i quali, però, coram populo, riconoscono nella trasparenza un valore, un caposaldo, un principio imprescindibile della nostra epoca. L’accorato appello alla trasparenza è particolarmente risonante in ambito politico. Chi desidera partecipare a un appalto, proporsi come candidato a una carica pubblica, rivestire un ruolo importante in una azienda deve essere trasparente nel senso che la sua fedina penale deve essere linda e immacolata, come la Vergine Maria. Ma anche nel senso che deve, in ogni momento, rendere possibile agli altri – chiunque essi siano – accedere a qualsiasi anfratto della propria esistenza, pena lo stigma del sospetto. Soprattutto, deve essere sempre perfettamente trasparente perché gli elettori, gli azionisti, gli amministratori devono sapere con chi hanno a che fare.
Ecco perché oggi si persegue con puntigliosità l’ossessione del candore a tutti i costi. L’imperativo è scoprire, smascherare, esporre. Senza se e senza ma. Non solo gli arcana del potere, ma anche quelli della persona comune. E chi si oppone, nel nome della privacy – altro valore coltivato nella nostra epoca, ma un po’ in subordine e spesso in contrasto – appare subito ambiguo, come se avesse qualcosa da nascondere. Potrebbe essere perfino un assassino o uno stupratore. Non perché abbia commesso davvero questi due reati, ma perché si oppone alla trasparenza. E chi si oppone alla trasparenza è un losco figuro per definizione, capace di tutto. Non a caso la domanda: «Che cosa hai da nascondere?» è la più temuta, ma anche l’obiezione più frequente a chi avanza dubbi sulla legittimità del potere della trasparenza. Non è tanto difficile prevedere che, presto, la domanda «Che cosa hai da nascondere?» sarà il grimaldello d’accesso alla vita privata di chiunque, come forse nemmeno George Orwell nel suo 1984 osava prevedere.
Come dice Byung-Chul Han ne La società della trasparenza: «La trasparenza stabilizza e accelera il sistema eliminando l’Altro o l’Estraneo. Questa coercizione sistemica rende la società della trasparenza una società uniformata. In ciò consiste il suo tratto totalitario: “Nuovo nome dell’uniformità: trasparenza». In effetti, chi perde ogni velo, mostra oscenamente il proprio essere uguale agli altri. Perché sono i segreti, le idiosincrasie, le ossessioni interiori, i traumi dell’infanzia, le cicatrici su quell’angolo di pelle a rendere ognuno di noi l’unicum che è. Quando tutto ciò è dimesso o viene collocato per forza davanti alle quinte, rimane la monotonia dell’uniformità, il sempreverde della piattezza, l’assolutezza della permeabilità assoluta.
Ma, in fin dei conti, conviene davvero essere così trasparenti? È davvero importante scoprire tutto di tutti? Deprivare dei propri diritti la sfera privata riducendola a palla di cristallo in cui sbirciare a piacimento? È la domanda che, più di 150 anni fa, si poneva lo scrittore inglese William Makepeace Thackeray (1811-1863) in un suo testo compreso in una raccolta di pezzi “tortuosi” (Roundabout Papers) del 1863 denominato On Being Found Out (“Dell’essere scoperti”), che qui troverete in traduzione. Certo, esporre i peccati, specie se gravi, di tutti sembra cosa buona e giusta. Ma è davvero così? Che cosa accadrebbe se scoprissimo che il rispettato leader politico, l’adorato maestro delle elementari, la coniuge invidiata da tutti, l’amico fedele e irrinunciabile non sono poi tanto rispettabili, adorabili, invidiabili e fedeli? Ne deriverebbe un crollo delle autorità e della fiducia nell’umanità, una democratizzazione della carogna, un appiattimento generale nel fango. Senza più alti né bassi. Senza più movimenti sinusoidali ad agitare le faccende della società. E cui prodest tutto questo? Vuoi vedere che per vivere nella nostra società tendente al cristallino è necessario coltivare un po’ di ipocrisia, di finzione relazionale?
La riflessione, apparentemente insensata, che Thackeray propone al lettore è: «Pensa che cosa sarebbe la vita se ogni furfante fosse scoperto e fustigato coram populo!». Nessuno ne uscirebbe indenne, neppure le persone più riverite e rispettate della comunità, perché tutti hanno qualcosa da nascondere e tutti corrono il rischio di essere found out. Il rischio, soprattutto, è quello di perdere fiducia nell’essere umano, nella fondamentale, ma fragile illusione che vuole che ci siano i buoni e i cattivi, che alcuni di noi siano modelli di comportamento, indenni dalle tentazioni del male, puri e candidi come gigli. Non solo. La finzione della bontà e l’ipocrisia nelle relazioni sociali reggono importanti forme di socialità come la famiglia. Non a caso Thackeray chiede implacabilmente al lettore: «Vorresti che tua moglie e i tuoi figli ti conoscessero esattamente per quello che sei e che ti giudicassero per quello che vali davvero?». Tutti noi viviamo agli occhi dei nostri cari come circonfusi da un alone magico che filtra le nostre brutture, lasciando distillare solo ciò che è accettabile e necessario alla vita di relazione. Abbiamo bisogno di questi veli, di questi infingimenti per reggere quel fondamentale abbaglio che è la vita di relazione e, in particolare, di coppia. Se sapessimo che, in virtù, ad esempio, di una speciale macchina della verità, i nostri segreti – piccoli o grandi, non importa – non sono più possibili e che la trasparenza è destinata a imperare senza ostacoli nella nostra società, la vita diventerebbe semplicemente intollerabile e ognuno di noi dovrebbe fare i conti con la spada di Damocle dello “smascheramento” incessante, della caduta della nostra maschera divina e opacizzante. Divina e opacizzante perché il dio che siamo è tale in virtù dell’opacità: ogni dio è tale perché sconosciuto.
Fa notare giustamente il sociologo Simmel al riguardo: «Il semplice fatto della conoscenza assoluta, dell’aver esaurito psicologicamente il contenuto della personalità, ci disinganna anche senza un’ebbrezza precedente, paralizza la vitalità delle relazioni […]. La profondità feconda delle relazioni che dietro a ogni elemento ultimo rilevato intravvede e onora ancora un altro elemento più ultimo […] è soltanto la ricompensa di quella delicatezza e di quel dominio di sé che anche nel rapporto più stretto, che coinvolge tutta la persona, rispetta ancora la proprietà privata interiore, la quale limita il diritto alla domanda con il diritto al segreto».
La nostra epoca, dominata dall’imperativo della trasparenza, dalla presenza ubiquitaria della videosorveglianza, dalla retorica dello smascherare, svelare, rendere visibile a ogni costo, e per questo priva di delicatezza e di vitalità nelle relazioni, potrà forse apprezzare queste parole “tortuose” di Thackeray che, a distanza di oltre 150 anni, ci offrono delle riflessioni estremamente attuali, seppure scomode, a difesa della dissimulazione e della lacuna recondita. Non tanto per continuare impunemente a dissimulare e nascondere. Quanto per continuare a essere umani.