La recente Legge 26.04.2019, n. 36 “Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa” ha introdotto novità importanti in materia di legittima difesa (art. 52 del Codice Penale). In particolare, in seguito a essa, «agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone». Inoltre, è “sempre” sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa.
Non voglio qui entrare nel merito della questione. È noto che c’è chi scorge in tale scelta normativa il trionfo della vittimologia sulla criminologia; la celebrazione della potenziale vittima vs. la condanna del criminale, ridotto a scoria da eliminare quanto prima e sempre; l’apice di un processo di criminalizzazione crescente a fronte di una diminuzione storica dei reati in Italia; il rischio di un Far West all’italiana con tanto di corsa forsennata ad armarsi come negli Stati Uniti.
Voglio, tuttavia, osservare che il tema della legittima difesa non è un’ossessione dei nostri tempi. Esso è presente, seppure in termini diversi, tanto nel diritto romano quanto in quello barbarico, nel Decretum Gratiani come nel Codice napoleonico fino al nostro articolo 52, recentemente riformato.
Una delle modifiche più curiose discusse prima dell’approvazione della Legge 26.04.2019, n. 36 riguardava la legittimità o no delle reazioni alle aggressioni commesse «in tempo di notte». Seppure ridicolizzata da vari commentatori (“paura dell’uomo nero?”, “di giorno i reati possono essere commessi, di notte no?”), questa modifica, oggi non presente nell’articolo 52, ha una sua precisa, quanto misconosciuta, storia. Ad esempio, in uno dei primi documenti normativi romani, le leggi delle XII tavole, codice legislativo redatto intorno al 450 a.C., si legge “Si nox furtum faxit, si im occisit, iure caesus esto”, ossia “Se avrà tentato di rubare nottetempo e fu ucciso, l’omicidio sia considerato legittimo”.
Anche la Bibbia tiene conto di questa “scriminante notturna”. In Esodo 22, 2-3 (Nuova Riveduta) si legge: «Se il ladro, colto nell’atto di fare uno scasso, viene percosso e muore, non vi è delitto di omicidio. Se il sole è già sorto quando avviene il fatto, vi sarà delitto di omicidio. Il ladro dovrà risarcire il furto. Se non può farlo, sarà venduto per pagare ciò che ha rubato».
Commettere un reato di notte ha avuto storicamente una sua indubbia rilevanza. Simbolicamente, la notta è stata associata all’ignoto, al male, all’invisibile, all’ultraterreno (soprattutto infernale), al trascendente, alla dimensione altra del sonno, ma anche alla viltà, al prendere di sorpresa, al sovvertimento delle regole. Oggi, tutto questo può sembrare sconcertante. La luce artificiale ha ridimensionato le valenze simboliche della notte fino quasi ad annullarle. Eppure, un tempo le cose erano diverse, molto diverse. Discutere di reati commessi “in tempo di notte” ha dunque una valenza arcaica che viene oggi “riscoperta” per stigmatizzare i crimini contro la (piccola) proprietà privata e vellicare la (piccola) borghesia in ciò che ha più caro: la “roba” (nel senso verghiano del termine). I richiami alla legittima difesa sono così richiami alla difesa di un ordine percepito sotto aggressione da nemici putativi, di volta in volta identificati in rom, immigrati e tossicodipendenti; non-persone su cui la retorica dominante declina interpretazioni spregevoli, disumane, marginali. Niente di meglio, dunque, che il manto della notte per avvilupparli tutti e portarli via, magari spegnendo ogni luce artificiale. È in questo modo che la notte diventa la sentinella dell’ordine costituito e la giustificatrice della legittima difesa a tutti i costi.