Jacob Riis (1849-1914), cronista e riformatore sociale, con How The Other Half Lives (1890) documentò le condizioni miserrime degli abitanti dei bassifondi newyorkesi, quelli che oggi, completamente trasformati, il turista percorre ignaro, attratto dalle segnalazioni delle sue guide che definiscono “immancabile” una visita a China Town o Little Italy. Se questi quartieri sono come sono oggi, lo dobbiamo anche agli sforzi di Riis, alle sue denunce dello sfruttamento, delle angherie, delle violenze di cui erano vittime gli immigrati che, alla fine dell’Ottocento, si riversavano a frotte sulle coste degli Stati Uniti nella speranza di una vita migliore. Furono i suoi sforzi e la sua caparbietà giornalistica a far conoscere ai membri delle classi superiori americane le reali condizioni di vita di migliaia di individui negletti, se non dimenticati.
Nato in Danimarca, Riis, terzo di 15 fratelli, emigrò per gli Stati Uniti all’età di 21 anni, sperimentando tutte le difficoltà dei newcomers dell’epoca. Disoccupazione, fame, insicurezza abitativa sono tutte condizioni che provò sulla sua pelle e che lo condussero, più di una volta, alla tentazione di suicidarsi. Per tre anni, vagò per le strade americane in cerca di un boccone con cui sfamarsi, dormendo in strada, barcamenandosi tra svariate occupazioni, tra cui quelle di falegname e di commesso viaggiatore, facendo i lavori più umili, finché entrò in contatto con una agenzia giornalistica e iniziò, nel 1877, il lavoro di police reporter, termine che, in inglese, designa il cronista che “copre” le notizie provenienti dalla polizia. Fu in questa veste che iniziò a frequentare di giorno e di notte la degradata Mulberry Street, nel cuore del Lower East Side, facendo la conoscenza dei suoi abitanti disperati, denutriti, privi di un’occupazione dignitosa, ignoranti e facilmente manipolabili, costretti a vivere nel sudiciume più lercio, in locali senza areazione, sovraffollati all’inverosimile, malsani: una vera e propria fogna generatrice di depravazione e abbattimento morale.
In particolare, Riis prese di mira i famigerati landlords dell’epoca, i proprietari degli squallidi caseggiati che ospitavano i tanti migranti, e che estorcevano loro prezzi esorbitanti a cui i reietti provenienti da mezza Europa non sapevano opporre un rifiuto, oppressi dall’ignoranza e dalla necessità di sopravvivere. In questi quartieri, finirono col concentrarsi inevitabilmente ladri, ruffiani, prostitute, mendicanti, criminali, ubriaconi in un ambiente caratterizzato da un estremo stato di miseria
Riis scrisse ripetutamente di questi temi e fu proprio il suo impegno a favorire la creazione della Tenement House Commission nel 1884, che indagò le condizioni abitative degli immigrati, riconoscendo lo sfruttamento cui erano sottoposti e propugnando una serie di riforme sociali.
La novità per cui Riis è ancora oggi considerato degno di essere letto è l’uso esteso della fotografia come documento sociale per ritrarre da vicino le condizioni di vita degli immigrati. How The Other Half Lives, infatti, è celebre non solo per il suo contenuto testuale, ma soprattutto per l’ampio apparato fotografico che lo contraddistingue, testimone inappuntabile di come l’altra metà del mondo viveva a New York all’epoca. Inizialmente, Riis si servì di fotografi professionisti. In seguito, imparò a utilizzare la macchina fotografica da solo, anche se incappò più volte in vari incidenti, come quando incendiò per ben due volte i luoghi che tentava di fotografare o quando armeggiò in modo talmente maldestro i suoi strumenti da rischiare la vista. Riis fu uno dei primi a usare il lampo al magnesio (flash) e si servì anche della cosiddetta “lanterna magica”, antesignana del proiettore di diapositive, per dare risalto alle sue iniziative. Come è oggi ampiamente noto, una fotografia ha l’efficacia persuasiva di mille parole. Di fatto, furono proprio le immagini a rendere consapevoli più di ogni altra cosa i suoi lettori di ciò che tentava di documentare e furono proprio le fotografie ad assicurargli un ruolo stabile nella storia della riforma sociale e della sociologia visuale o fotografia sociale.
Dopo How The Other Half Lives, Riis pubblicò Children of the Poor (1892), sui bambini che abitavano negli slums newyorchesi, e l’autobiografia The Making of an American (1901), oltre a racconti, articoli, reportage e pezzi di vario genere.
Dopo la morte di Riis le sue foto furono quasi dimenticate, fino a che, trenta anni dopo, il Museum of the City of New York, nel 1947, offrì una importante mostra retrospettiva del suo lavoro che ne consentì la valorizzazione definitiva.
Per quanto appassionato riformatore sociale, Riis, tuttavia, non era immune da molti dei pregiudizi che, in quell’epoca, distorcevano lo sguardo dei contemporanei nei confronti degli immigrati. In particolare, si avverte nel danese la tendenza ad attribuire un insieme predeterminato di caratteristiche, positive e negative, alle varie nazionalità di immigrati, come è evidente dai due capitoli della sua opera – il quinto e il sesto – interamente dedicati agli italiani e qui tradotti per la prima volta nella nostra lingua.
Per Riis, gli italiani occupano il fondo della scala sociale e sono la nazionalità che più si adatta a vivere nelle condizioni di vita peggiori, senza protestare a differenza degli ordinati tedeschi e dei litigiosi irlandesi. La loro remissiva dabbenaggine li rende particolarmente propensi a cadere vittime delle trame lucrative dei propri connazionali, di cui sono una fonte inesauribile di profitto. Gli italiani sono sudici, creduloni, ignoranti, incapaci di apprendere l’inglese, privi di spirito imprenditoriale, capaci solo di “arrangiarsi” tra la melma e i rifiuti di New York. Si adattano a vivere in qualsiasi discarica e in qualsiasi situazione di degrado, per quanto insalubre e disumana. Sono loro le vittime preferite dei landlords locali in grado di estrarre da essi dollari su dollari per servizi che non varrebbero un centesimo.
L’italiano è onesto e legato alla famiglia, ma impulsivo e irascibile e facile alla violenza più belluina. Tra i vizi, il gioco è il suo preferito. Tra i reati, si mostra piuttosto incline all’omicidio e alla truffa in modo tipico e prevedibile. Per il resto, se non contrariato, si dimostra piuttosto bonario e meno pericoloso dell’irlandese e meno scaltro dell’ebreo. Tutti questi tratti confluiranno successivamente in maniera stereotipica e iperbolica nella descrizione del mafioso italo-americano di cui film e romanzi ci hanno consentito di conoscere bene l’evoluzione.
Riis si sofferma in particolare sulle avvilenti condizioni di sovraffollamento in cui vive l’italiano a Mulberry Street, in particolare nel “Bend”, la zona più ripugnante dei bassifondi di New York. Delinquenza, analfabetismo, autoreclusione volontaria, insalubrità, condizioni igieniche pessime, malattie dominano incontrastate in quella che sembra più una discarica di rifiuti umani che un quartiere. Non a caso, Riis auspica la demolizione totale del “Bend” e la creazione di un Park residenziale sulla scia di esperienze analoghe già effettuate in quartieri limitrofi.
L’autore si mostra disgustato dalle condizioni subumane in cui gli italiani accettano di vivere: tuguri senza un sistema di areazione, viveri incommestibili, sostanze nocive, sfruttamento perpetuo, marginalità ributtante. Il sottotesto mai esplicitato è che gli italiani siano antropologicamente e culturalmente inclini a tali condizioni di subalternità e che siano “per natura” diversi da altri popoli come l’irlandese, il tedesco, il danese, il polacco ecc. che mai accondiscenderebbero a una vita del genere. Insomma, il degrado come caratteristica culturale, se non innata, dell’italiano.
Per Riis, dunque, gli italiani sono una “razza” a parte. Ma forse la loro è semplicemente la situazione che tanti disperati nel mondo hanno vissuto e vivono tuttora a causa delle contraddizioni, come si diceva una volta, del sistema capitalistico in cui viviamo.