Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Matteo 5, 22).
Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna (Matteo 5, 29-30).
Nel Nuovo Testamento, i riferimenti alla Geenna, come quelli citati, sono alla base dell’idea che, con il tempo, ci siamo fatti dell’inferno, luogo oltremondano destinato a consumare le anime tra fiamme e tormenti indicibili.
Ciò che è curioso è che il termine Geenna designava nell’Antico Testamento un luogo reale, che gli abitanti del posto sapevano ben localizzare.
La Geenna, infatti, è un avvallamento di Gerusalemme, anticamente luogo di culto idolatrico e poi discarica dove divampava continuamente il fuoco. Il termine deriva dall’ebraico ge Innom che significa “valle di Hinnom”, nota nell’Antico Testamento anche come “valle di Ben-Hinnòn”, ossia “valle del figlio/dei figli di Innom”. La valle si trovava a sud-ovest di Gerusalemme e percorreva la valle del Cedron di fronte al moderno villaggio di Silwan.
A un certo punto, la valle divenne nota come l’altura in cui alcuni re di Giuda intrapresero pratiche religiose proibite, tra cui sacrifici umani per mezzo del fuoco, associate ai riti di Moloch e Tofet. Per questo motivo, il profeta Geremia parlò del giudizio che pendeva su di essa e della sua distruzione (Geremia 7, 30-34):
I figli di Giuda hanno fatto ciò che è male ai miei occhi, dice il SIGNORE; hanno collocato le loro abominazioni nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla. Hanno costruito gli alti luoghi di Tofet nella valle del figlio di Innom, per bruciarvi nel fuoco i loro figli e le loro figlie; cosa che io non avevo comandata e che non mi era venuta in mente. Perciò, ecco, i giorni vengono, dice il SIGNORE, che non si dirà più Tofet né la valle del figlio di Innom, ma la valle del massacro, e, per mancanza di spazio, si seppelliranno i morti a Tofet. I cadaveri di questo popolo serviranno di pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra; e non ci sarà nessuno che li scacci. Farò cessare nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme il grido di gioia e il grido di esultanza, il canto dello sposo e il canto della sposa, perché il paese sarà una desolazione.
Fu Giosia a mettere fine a queste pratiche distruggendo e gettando la maledizione sulla valle di Innom, che divenne una discarica pubblica (2Re 23, 10).
Nell’Antico Testamento, dunque, quando si parla della Geenna, si parla di un luogo reale e concreto, geograficamente individuabile.
Nel Nuovo Testamento, invece, in Matteo, Marco e Luca, ad esempio, il termine “Geenna” perde il suo carattere di toponimo per acquisire la dimensione metaforica di simbolo dell’inferno, dove i dannati bruciano perennemente fra le fiamme, e quindi di perdizione eterna.
La minaccia della Geenna è vissuta come qualcosa di terribile, una punizione senza tempo che strazierà le anime in modi nemmeno immaginabili.
Accade talvolta che luoghi o cose reali assumano, con il tempo, una fisionomia simbolica e vaga che si distanzia progressivamente dalla realtà finendo con il separarsene e trascenderla. In questo passaggio, essi assumono un’identità metafisica, religiosa, divina che fa dimenticare, talvolta, la loro origine terrestre, a favore di una nuova veste che tendiamo a credere generata dalla stessa divinità. In questo modo, la metafora diviene operazione divina che crea ex novo ciò che già l’uomo aveva creato, trasfigurandolo del tutto.
È così che il fulmine diviene un segno dell’ira divina, la peste una punizione inviata da Dio, un’azione cattiva diviene ontologicamente “il male”.
In questo modo, astraiamo una qualità dalla sua dimensione reale, la rendiamo metafora, poi nuova realtà trascendente e le attribuiamo un’origine divina, “cosizzandola”. Attribuiamo a Dio la genesi della nuova realtà, quando siamo noi umani ad averla metaforizzata a partire da qualcosa di sensibile ed evidente.
Questa operazione è probabilmente a fondamento della stessa identità di Dio, proiezione di timori, aspettative, credenze molto umane, finalizzata a rassicurarci e proteggerci nella finitudine della nostra esistenza.