Nel suo celeberrimo No logo, Naomi Klein racconta una storia che fa pensare. Nel 1998 la Coca-Cola organizzò un concorso chiedendo a diverse scuole americane di presentare un progetto per la presentazione di buoni Coca-Cola agli studenti. Il migliore avrebbe vinto 500 dollari. La Greenbriar High School di Evans, in Georgia, si impegnò molto e organizzò a fine marzo un Coke Day durante il quale tutti gli studenti indossarono magliette della Coca-Cola, si fecero fotografare in modo da comporre la parola Coke, seguirono lezioni tenute da dirigenti della Coca-Cola. Sembrava andare tutto bene finché un ragazzo, Mike Cameron, apparve con indosso una t-shirt con il logo della Pepsi. Fu immediatamente sospeso. La preside, Gloria Hamilton, si giustificò dicendo che il ragazzo aveva mancato di rispetto agli ospiti della scuola (Klein N. 2002. No logo. Milano: Baldini & Castoldi, pp. 128-129).
Questa storia fa pensare perché ci rivela che oggi la devianza non è definita solo dallo Stato e dai suoi organi, ma anche dall’economia e dalle multinazionali. Così la Coca-cola definisce deviante chi fa uso della Pepsi, mentre i paesi che non si adeguano agli standard economici dettati dalla Germania sono sottoposti a sanzioni e reprimende. Chi non si fa accreditare i soldi in banca è guardato con sospetto, mentre già da tempo circola negli Stati Uniti il detto secondo cui “il contante è la carta di credito dei poveri”. Sappiamo poi che vestire in un certo modo piuttosto che in un altro – indossando cioè la marca giusta al momento giusto – può garantire l’accesso a determinate cerchie di persone e che, al contrario, deviare da certi dressing codes può precludere l’ingresso in determinati strati sociali. Già Veblen tanti anni fa parlava di conspicuous consumption per indicare consumi finalizzati non solo all’utilizzo diretto, ma anche, se non soprattutto, a simboleggiare la propria ricchezza.
Insomma, dobbiamo smetterla di pensare che la devianza sia solo un fatto di codice penale. L’economia detta legge anche nella costruzione di chi è normale e di chi non lo è. Anzi, in molti casi, queste forme di devianza sono molto più temute ed evitate di quelle del diritto. Come dimostrano i centinaia di casi di reati dei colletti bianchi: reati compiuti non per necessità o per intrinseca malvagità, ma per conformarsi agli standard di “buon cittadino” dettati dall’economia imperante. Che preferisce persone che accumulano e conseguono profitti, anche se con la fedina penale sporca, a persone povere senza alcun precedente penale.
Insomma, direi che il ragionamento non regge granché. Non ogni forma di esclusione comporta una devianza: la devianza è rconoscibile come tale se classificata e sanzionata in modo tendenzialmente permanente, non estemporaneo. Quella è la sanzione di un comportamento ritenuto sconveniente, che però di per sé non integra una devianza: la devianza ha la pretesa di classificare una o più persone e di produrre uno stigma, mentre nessuno si riterrebbe stigmatizzato per una sanzione (magari arbitraria, come in questo caso) dovuta al fatto di dare risalto a un marchio concorrente a quello che sponsorizzava un certo evento. Se dietro a ogni forma di devianza c’è una sanzione ciò non vuol dire che sia vero l’inverso, cioè che a ogni sanzione debba corrispondere una devianza, altrimenti anche un voto negativo a scuola basterebbe a identificare un allieva/o come deviante, il che per fortuna non è.