Nel mio libro Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine, ho proposto l’adozione di una criminologia enantiodromica, una criminologia, cioè, che preveda “la possibilità che da comportamenti criminali o devianti scaturiscano conseguenze positive tanto per gli individui quanto per la società, nel suo complesso o in parte”. Si tratta di una criminologia “perversa”, paradossale, che sfida il senso comune, ma anche il senso criminologico più riconosciuto. Nella sua essenza, la criminologia enantiodromica prevede che il bene possa discendere dal male. Nel libro offro numerosi esempi di come nella realtà si verifichino situazioni paradossali di questo tipo. In questo post, voglio richiamare l’attenzione su uno dei casi più curiosi di criminologia enantiodromica, un caso non incluso nel libro, ma che si dimostra particolarmente adatto a provare la verità di questo tipo di criminologia. Mi riferisco alla nascita dell’Australia. Oggi l’Australia è vista come uno dei paesi più civili al mondo. Eppure, non molti sanno che questo paese ha inquietanti origini criminali. Ne parla lo scrittore Robert Hughes in un libro intitolato La riva fatale.
L’Australia fu scoperta nel 1770 da James Cook e fu immediatamente utilizzata dai britannici come colonia penale per donare sollievo alle sovraffollate prigioni inglesi. L’idea che l’Australia che, per diciotto anni dall’approdo di Cook, nessuno aveva più visitato, potesse accogliere una colonia penale fu una conseguenza della ribellione delle colonie americane, a cui l’Inghilterra aveva inizialmente pensato come luogo di deportazione, e della crisi del sistema carcerario inglese. Dal 1788, e per oltre cinquanta anni, circa 160.000 prigionieri (animae viles, secondo la descrizione del filosofo Jeremy Bentham) furono trasportati in Australia per decisione del re Giorgio III.
Tra il 1787, anno in cui partì la Prima Flotta, e il 1868, che vide l’ultima nave penale, la Hougoumont, sbarcare il suo carico di feniani irlandesi nell’Australia Occidentale, la Corona mandò 825 carichi di prigionieri inglesi e irlandesi, con una media di circa 200 prigionieri per nave. L’esodo incominciò in tono minore, con un totale di solo quarantadue navi inviate tra il 1788 e la fine del 1800, e rimase modesto e irregolare per i quindici anni successivi, a causa delle guerre napoleoniche. Tra il 1801 e il 1813 non arrivarono mai a Sydney più di cinque navi penali all’anno; il 1814 è il primo anno in cui il totale dei prigionieri deportati sfiora il migliaio.
La piena comincia dopo il 1815 e raggiunge il flusso massimo nel periodo 1831-35, in cui non meno di 133 bastimenti portarono in Australia 26.731 prigionieri. L’anno di punta fu il 1833: 36 navi e 6779 prigionieri, circa 4000 per il Nuovo Galles del Sud e il resto per la Terra di Van Diemen (Hughes, p.190).
Dopo il 1960, il sistema della deportazione fu gradualmente abbandono non perché diminuirono i reati, ma per il verificarsi di tre circostanze: «la crescente opposizione morale e politica al Sistema da parte dei riformatori inglesi dopo il 1830, la costituzione di un sistema penitenziario alternativo e l’opposizione degli stessi australiani ai continui invii di criminali in quella che ormai, dopo cinquant’anni di colonizzazione, essi consideravano casa loro» (Hughes, p. 210).
Per quasi un secolo, dunque, l’Australia fu colonizzata da delinquenti e criminali. Non a caso il reverendo Sydney Smith, fondatore della “Edinburgh Review” era convinto che: «Il Nuovo Galles del Sud è un pozzo di nequizia nel quale la gran parte dei deportati, uomini e donne, diventano ancora più depravati di quanto non fossero al loro arrivo … È impossibile che in una simile società il vizio non si intensifichi». Eppure, a dispetto di questa convinzione, un paese di delinquenti e depravati diede vita a una delle società più civili del mondo, a tal punto che, ancora oggi, gli australiani si vergognano delle loro radici.
Ciò che è interessante, dal mio punto di vista, è come esseri ritenuti inadatti alla società abbiano contribuito a fondare un nuovo paese. Perché, come osserva Hughes,
chiedersi come sarebbe stata l’Australia senza i forzati è, di fatto, una domanda priva di senso. Furono i forzati a costruire il paese – intendendo per paese la sua cultura materiale europea – e le loro tracce mute sono dappertutto: nei segni lasciati dagli scalpelli sui pendii di arenaria di Sydney là dove le squadre di lavoro aprirono faticosamente strade nella roccia viva; nell’elegante inarcatura di un ponte a Berrima nel Nuovo Galles del Sud e nelle figure serie e un po’ bizzarre intagliate lungo il lato esterno di un altro ponte a Ross, in Tasmania; nel tracciato serpeggiante della strada delle Montagne Azzurre, dove ora il traffico scorre sopra le catene dei morti, ormai sepolte e arrugginite; e infine, meno palesemente, nei fertili pascoli che un tempo furono primordiali foreste di eucalipti (Hughes, pp. 698-699).
La società è piena di paradossi e perversioni simili. Perché, ad esempio, alcuni paesi incrementano il gioco d’azzardo, pur ritenuto causa di dipendenza patologica, per incrementare le proprie entrate? Perché la corruzione viene ritenuta un “lubrificante” necessario se si vuole fare affari in certi paesi? Sapete che l’usura, oggi tanto vituperata, ha contribuito alla nascita dell’odierno sistema capitalistico? E che la prostituzione è stata ritenuta un rimedio “salva-famiglie” da personalità della Chiesa come Sant’Agostino e San Tommaso? Ma, per quanto riguarda tutte le “perversioni” della criminologia enantiodromica, devo necessariamente rimandarvi al mio libro.
Fonte:
Hughes, R., 1990, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia, Adelphi, Milano.
Dottor Capuano, era un po’ che non la leggevo e ritrovo con piacere i suoi posts interessanti. Colgo l’occasione per augurarle una gradevole Pasqua (atea) con la sua famiglia. La sua propensione iconoclasta emerge spesso nei suoi scritti ed io la trovo affascinante anche se talora mi mette a disagio, forse sono più allineato di quanto io non pensi di essere. Una sua valutazione più relativista della malattia mentale sta iniziando ad essere presa in considerazione: ho recentemente letto un abstract a proposito delle “voci”. La differente accezione che queste hanno in alcune culture, puó dare spunti per una gestione diversa della patologia, nel senso di una sorta di training di convivenza con esse, anziché puntare sempre ad una soppressione. Non so se avrò tempo di leggere il suo libro, ho una lista ancora non iniziata, ma mi intriga come dal “male” possa nascere il “bene”. Anche se ho l’impressione che non abbiamo nessun controllo e possibilità di previsione su fenomeni come questi, di cui facciamo valutazioni ex-post. Cari saluti.
Salve e ben tornato. Naturalmente mi farebbe immenso piacere se leggesse il mio libro sulla criminologia enantiodromica. Nel frattempo, buone feste, di qualsiasi segno siano. Romolo Capuano