La storiografia più recente ci ha restituito un’immagine molto diversa del grande capo apache Geronimo (1829-1909), il più celebre di tutti i capi indiani del Nord America, che nel nostro immaginario collettivo appare come un nobile guerriero che combatte valorosamente per difendere il suo popolo e la sua terra dall’aggressione dei bianchi, il simbolo più fulgido della resistenza indiana contro la protervia degli americani. Un uomo che trascorse gli ultimi ventitré anni della sua vita prigioniero di guerra degli Stati Uniti e che conobbe l’ignominia di essere esibito, a settantaquattro anni, come preda di guerra e alla stregua di un animale addomesticato presso diverse manifestazioni, spesso manifestazioni che dovevano celebrare la “superiore civiltà” dei bianchi come la Louisiana Purchase Exposition di St. Louis nel 1904.
In realtà, sembra che Geronimo, che morì a 80 anni il 17 febbraio 1909, non fosse un grande capo: per lo più comandò piccoli gruppi di trenta persone al massimo, non conosceva le più elementari tecniche di guerra apache, sapeva essere incredibilmente spietato e cinico, mirava più alla sopravvivenza del proprio gruppo, razziando e depredando, che degli indiani nella loro complessità, aveva una decisa propensione all’alcool, spesso non manteneva le promesse che faceva e ricorreva a qualsiasi espediente, anche meschino, per raggiungere il suo scopo, adattandosi a ogni situazione pur di sopravvivere…
Della sua infanzia si sa poco, se non che apparteneva alla tribù dei chiricahua meridionali stanziati sulla Sierra Madre messicana. Da piccolo gli fu assegnato il nome di Go Khla Yeh, che significa “Colui che sbadiglia”, un nome certamente poco dignitoso per un grande capo indiano, ma sembra che, sin da subito, abbia manifestato coraggio e abilità. La sua vita cambiò radicalmente nel 1858, quando quattrocento soldati messicani massacrarono donne e bambini del suo accampamento, fra cui madre, moglie e figli. La leggenda vuole che tale episodio abbia contribuito anche a cambiare il suo nome. Ecco in che modo nel racconto di Viviano Domenici:
Come voleva il rituale funebre, bruciò la tenda in cui aveva vissuto con la famiglia e ogni altro bene personale, quindi ottenne dal consiglio della tribù l’incarico di cercare alleanze tra gli altri gruppi apache per organizzare una rappresaglia. Fu così che alcuni mesi dopo oltre duecento guerrieri di diverse tribù attaccarono due compagnie di soldati messicani combattendo per un’intera giornata. Lo scontro si concluse con parecchi morti da entrambe le parti, ma alla fine i suoi uomini lo acclamarono “capo di guerra” per il coraggio e l’abilità dimostrati. In quell’occasione il suo nome infantile, Colui che sbadiglia, fu cambiato in Geronimo, perché nel corso della battaglia i soldati messicani avevano gridato più volte il nome di San Girolamo (Hieronymus) – invocato forse nel loro inno di guerra –, che alle orecchie degli apache suonò come Geronimo.
Fu così, dunque, che per un suono forse male interpretato, Geronimo acquistò il suo nome immortale. Secondo lo storico Robert M. Utley, Geronimo è solo l’equivalente spagnolo dell’inglese Jerome. Ma non è priva di fascino l’ipotesi secondo cui il suo nome sarebbe stato… portato dal vento.
Fonti:
Domenici, V., 2015, Uomini nelle gabbie, Il Saggiatore, Milano, cap. 9.
Lucchetti, M. 2014, 1001 curiosità sulla storia che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton, Roma.
Utley, R.M., 2014, Geronimo. La leggenda del grande capo apache, Mondadori, Milano.