Nel mio libro Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia, osservavo come sia possibile tracciare, nel tempo, le coordinate sociologiche di chi bestemmia, come, quando e dove. Ad esempio, una delle acquisizioni più note, ma per nulla scontate, della ricerca in argomento è che gli uomini dicono più parolacce e bestemmiano più delle donne. Questo dato ha a che vedere con la maggiore pressione sociale che tradizionalmente ha pesato sulle donne e sul fatto che, storicamente, il linguaggio delle donne è stato soggetto a un numero di interdetti superiore rispetto a quello degli uomini. In tempi recenti le cose sono cambiate: tra le conquiste del movimento femminista vi è anche l’accesso a “quote espressive” un tempo negate, tra cui le stesse parolacce.
Anche nel passato, però, si conoscono classi e ambienti sociali in cui alle donne era riconosciuto, seppure non sempre in maniera lineare, la facoltà di turpiloquiare. Lo testimonia il seguente brano, tratto dal libro dello storico Ariel Toaff, Pasque di sangue, e relativo alle comunità ebree ashkenazite del XVI secolo.
Anche le donne sembra avessero il loro ruolo, e non secondario, nel rituale degli insulti. La loro calorosa partecipazione alle ingiurie verbali e gestuali durante le funzioni sinagogali era a tutti nota e non destava sorpresa alcuna. Il rabbino Azriel Diena, in un responso rituale inviato ai capi della comunità ebraica di Modena nel mese di novembre del 1534, censurava le pessime abitudini delle donne che in sinagoga, nei sabati e nelle festività, “quando arrivava il solenne momento in cui venivano estratti dall’Arca santa i rotoli della Torah, come imbestialite si levavano a lanciare bestemmie e maledizioni all’indirizzo di coloro che avevano in odio”. Beniamin Slonik, rabbino di Grodno nel Granducato di Lituania, nel suo manuale per l’onesto comportamento muliebre nelle comunità ashkenazite, più volte tradotto in italiano, provava a spiegare la predisposizione delle donne a imprecare e scagliare anatemi a ogni pie’ sospinto per insegnar loro a correggersi e a raffreddare i bollenti ardori. Le donne, secondo il dotto lituano, andavano subito raffrenate “quando malediscono con kelatot (anatemi), che le donne sono molto use a questo, perché non si possono vendicar con altro per la loro debolezza, et mettono a biastemmare et maledisse (sic) altre persone che li hanno fatto qualche dispiacere (Toaff, A., 2007, Pasque di sangue, Il Mulino, Bologna, pp. 214-215).
Il brano è interessante non solo perché testimonia che anche le donne del XVI secolo bestemmiavano e maledivano, ma perché allude a una possibile spiegazione sociologica del fenomeno: dal momento che le donne della comunità ashkenazita non potevano agire o reagire fisicamente contro i loro bersagli, ricorrevano alla mala parola, sorta di succedaneo verbale della vendetta. Una spiegazione che paradossalmente potrebbe ribaltare il luogo comune dell’uomo che bestemmia più della donna. Perché se è vero che la donna è stata per lo più subalterna all’uomo nel corso della storia e nei vari ambiti sociali, potrebbe aver bestemmiato e turpiloquiato più di quanto pensiamo per compensare tale asimmetria fisica e sociale. Un aspetto poco studiato, questo, che varrebbe la pena approfondire, sebbene la ricerca non sia affatto facile.