Secondo il nostro modo naturale di pensare […], la percezione mentale di un fatto eccita l’affezione mentale chiamata emozione e questo stato mentale fa sorgere l’espressione corporale. La mia tesi, al contrario, è che i cambiamenti corporei seguono direttamente la percezione del fatto stimolante e che il modo in cui sentiamo gli stessi cambiamenti mentre accadono è l’emozione. Il senso comune ci dice: perdiamo il nostro capitale, siamo tristi e piangiamo; ci imbattiamo in un orso, ci spaventiamo e scappiamo; siamo insultati da un rivale, ci arrabbiamo e reagiamo. L’ipotesi qui sostenuta afferma che questo ordine di sequenza è errato, che uno stato mentale non è immediatamente provocato da un altro stato mentale, che prima devono intervenire le manifestazioni corporee, e che l’affermazione più razionale è che siamo tristi perché piangiamo, siamo arrabbiati perché reagiamo, abbiamo paura perché tremiamo, e non che piangiamo, attacchiamo o tremiamo perché siamo tristi, arrabbiati o abbiamo paura, secondo le circostanze.
Tra tutti i testi passati alla storia della psicologia, Che cos’è un’emozione? di William James (1884) rappresenta ancora oggi, uno dei più paradossali, controintuitivi e stimolanti mai scritti, nonché una fonte continua di stimoli e ispirazioni. In esso viene formulata una convinzione ancora oggi chiaramente contraria al senso comune secondo il quale scappiamo perché abbiamo paura, e non, come sostiene James, abbiamo paura perché scappiamo. Se il cuore batte all’impazzata – afferma l’uomo della strada – è perché siamo felici. No, obietta James. È perché il cuore batte follemente che siamo felici. Insomma, ci sono tutte le condizioni perché Che cos’è un’emozione? sia ancora oggi letto come un testo “scandaloso”, forse anche più dei testi del contemporaneo di James, Sigmund Freud, le cui teorie, in un’epoca ipersessualizzata come la nostra, sono state ampiamente interiorizzate fino a divenire – esse stesse – senso comune.
Per la teoria di James, dunque, detta periferica, sono le reazioni somatiche – i tremori, la sudorazione, i cambiamenti a livello di stomaco e intestino – l’elemento da cui partire perché si abbia una emozione. Le emozioni sono una risposta automatica al mutamento che si registra a livello corticale. L’ordine nella reazione emotiva della componente psicologica viene così ribaltato rispetto alla componente fisiologica che, per James, si identifica soprattutto nelle reazioni viscerali.
Oggi, sappiamo che le cose non stanno proprio così. Il fisiologo W. B. Cannon (1927), ad esempio, quasi 40 anni dopo l’articolo di James, fece notare che le reazioni viscerali sono relativamente poco sensibili e differenziate per giustificare la produzione di tutte le sensazioni soggettive presenti nelle emozioni e, inoltre, che le emozioni si verificano anche in assenza della percezione dei cambiamenti viscerali. Secondo Cannon, infatti, esistono aree specifiche del sistema nervoso centrale, come l’ipotalamo, deputate, se attivate, a generare esperienze emotive (teoria centrale), mentre James negava l’esistenza di specifiche strutture del genere, delegando il compito di generare emozioni alle aree corticali.
Sia come sia, è da William James che partono le riflessioni contemporanee sulla psicologia delle emozioni, in particolare quelle celeberrime di Stanley Schachter e Jerome Singer (1962) che confluiscono nella cosiddetta teoria cognitivo-attivazionale delle emozioni. Secondo i due psicologi, sulla scia della lezione di James, le emozioni sono il risultato di due componenti diverse (di qui anche il nome di teoria dei due fattori): un elemento di natura fisiologica, ossia lo stato di attivazione (arousal) dell’organismo e un elemento di natura psichica o cognitiva, attraverso il quale sentiamo e riconosciamo le variazioni somatiche. Ciò che caratterizza in particolar modo la genesi delle emozioni è il processo di attribuzione causale di una sorta di etichetta cognitiva, che ricaviamo dal contesto relazionale e sociale in cui viviamo e che applichiamo al rapporto tra stato fisiologico e percezione dei suoi effetti somatici. In altre parole, non basta tremare, sudare e provare affanno. Occorre riconoscere queste condizioni fisiologiche e conferire loro il nome di gioia, paura, rabbia, sorpresa, disgusto. Perché vi sia una emozione, dunque, dobbiamo attribuire un significato (basato su aspettative, motivazioni, ricordi ecc.) alle nostre esperienze fisiologiche e psichiche e compiere un atto di etichettatura lessicale che non è mai arbitrario, ma dipende dai nomi che ci mettono a disposizione la cultura e la società in cui viviamo. Non a caso, al medesimo stato fisiologico – ad esempio, sentirsi un groppo in gola – possono corrispondere emozioni diverse: ad esempio, paura di affrontare un nemico o gioia per il primo appuntamento sentimentale con la ragazza del cuore.
La teoria di Schachter e Singer – oggi un classico della psicologia delle emozioni – sviluppa e supera di molto le acquisizioni di James, ma il fatto che si collochi dichiaratamente sulla scia della innovativa proposta dello psicologo americano testimonia l’estrema attualità della stessa e, quindi, la necessità di conoscerla a distanza di oltre un secolo dalla sua formulazione.
Vorrei qui soffermarmi, però, su una conseguenza piuttosto curiosa della teoria di James, oggi rinvenibile anche nei manuali di psicologia popolare e di self-help, che finisce spesso con il trovare applicazione in chiave terapeutica o nelle discussioni sulla modifica delle abitudini. Si tratta di una conseguenza che mette in discussione modi di pensare radicati sulla relazione mente-corpo e che, ancora oggi, appare ai più controintutiva, se non assurda. Mi riferisco al fatto che non solo la mente influisce sul corpo, ma che questo può, a sua volta, influire sulla mente in modi imprevisti, ma accertati dalla scienza. In particolare, alcune condizioni fisiologiche sembrano favorire o sfavorire determinati stati d’animo a scapito di altri, tanto che gli psicoterapeuti raccomandano di eseguire determinate azioni associate a determinate condizioni fisiologiche, se si vuole raggiungere una determinata condizione mentale. Facciamo qualche esempio, avvalendoci anche di testimonianze provenienti dalla filosofia, dalla letteratura e da varie branche della scienza (alcuni esempi sono già comparsi in un mio post precedente).
In uno dei suoi Pensieri, il 233, il filosofo Blaise Pascal afferma che si può suscitare la fede in un individuo, se questo individuo si comporta “come se” credesse, ad esempio pregando, bagnandosi con l’acqua santa, andando a messa ecc. Il comportamento devoto favorisce la devozione come stato mentale.
Ovidio diceva la stessa cosa nella sua Arte di amare: «Devi fare la parte dell’innamorato e colle parole fingere la ferita amorosa […] Spesso però s’è dato che il simulatore cominciasse a essere innamorato davvero, spesso è stato quel che in principio aveva finto di essere». In questo senso, perfino un sentimento “spontaneo” come l’amore può essere indotto attraverso la sua simulazione comportamentale.
Ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe, il protagonista afferma: «Quando desidero scoprire quanto intelligente, stupida, buona o cattiva sia una persona, o quali siano i suoi pensieri al momento, adatto l’espressione del mio viso il più accuratamente possibile a quella del suo viso, e quindi aspetto di vedere quali pensieri o sentimenti si affacciano alla mia mente o nel mio cuore, che possano accordarsi o conformarsi con quell’espressione». Una formulazione perfettamente in linea con la tesi di James: la manifestazione fisica dell’emozione provoca l’emozione stessa.
Charles Darwin, nel suo The expression of the emotions in man and animals, scrive: «Dando libero sfogo ai segni esteriori di un’emozione, la si intensifica. Viceversa, la repressione nei limiti del possibile di ogni loro segno esteriore attenua le nostre emozioni. Chi si abbandona a gesti esagitati aumenta la propria rabbia; chi non trattiene i segni della paura avvertirà la paura in misura ancora maggiore; e chi resta passivo allorché è sopraffatto dal dolore perde la migliore occasione per riacquistare elasticità mentale» (Darwin, 1872/1975, p. 365). Parole che riecheggiano quelle di James:
Tutti sanno che il panico aumenta con la fuga e che lo sfogo dei sintomi del dolore e della rabbia accresce queste passioni. Ogni singhiozzo rende il dolore più acuto e suscita un singhiozzo ancora più intenso, finché, in ultimo, la quiete sopraggiunge solo con la stanchezza e con l’apparente esaurimento dell’apparato. Nella collera, è risaputo come ci “eccitiamo” fino al raggiungimento del punto massimo attraverso ripetute scariche espressive. Resistete all’espressione di una passione ed essa si estinguerà. Contate fino a dieci prima di sfogare la rabbia e la circostanza che l’ha causata vi sembrerà ridicola.
Quasi cento anni dopo James, lo psicologo Paul Ekman ha mostrato come i muscoli facciali svolgano un ruolo importante nel sorgere di alcune emozioni. In un noto esperimento, ad alcune persone era stato chiesto di tenere una matita fra i denti (cosa che li obbligava ad assumere un’espressione artificiosamente sorridente) mentre ad altri veniva chiesto di tenere una matita fra le labbra (il che impediva loro di sorridere). Il risultato fu che, dopo aver visto il medesimo film, il primo gruppo sosteneva di aver provato un divertimento maggiore di quanto non avesse provato il secondo (Ekman, Oster, 1979). Altri esperimenti hanno dimostrato che le persone che riproducono le espressioni facciali di emozioni come paura, rabbia e dolore, riferiscono in seguito di aver provato con maggior intensità l’emozione riprodotta dal loro viso.
In un altro esperimento,
Cantor, Zillman e Dryant [1975] hanno dimostrato che il grado di attivazione esercitato da un nudo di donna può essere influenzato dal grado di attivazione prodotto da una fonte estranea e dal grado in cui lo stato di attivazione è scorrettamente attribuito ai nudi piuttosto che correttamente attribuita alla fonte di attivazione estranea. Ad alcuni soggetti maschili venne chiesto di pedalare su una bici da allenamento con vigore sufficiente da indurre un alto grado di attivazione fisiologica. Il fatto che si produceva attivazione e l’origine di questa erano chiari ai soggetti subito al termine dell’esercizio. Dopo pochi minuti, tuttavia, essi non erano più in grado di registrare consapevolmente quello stato di attivazione anche se, come risultava dalle misurazioni tramite indicatori dello stato fisiologico, si trovavano ancora in condizioni di attivazione. I nudi esaminati durante questa fase furono giudicati più attraenti di quelli esaminati immediatamente dopo l’esercizio (quando i soggetti erano consapevoli che la loro attivazione dipendeva ancora dallo sforzo), o di quelli esaminati in una fase ancora più successiva (quando i soggetti non si trovavano in alcuno stato di attivazione cui erroneamente attribuire un significato di eccitazione) (Nisbett, Ross, 1989, pp. 311-312).
Un altro curioso esperimento ha dimostrato come gli esseri umani possano facilmente attribuire una condizione fisiologica a una emozione errata, a testimonianza del fatto che le emozioni presuppongono sempre un etichettamento cognitivo. Gli psicologi canadesi Dutton e Aaron (1974) chiesero ad alcuni soggetti maschi di percorrere il ponte sospeso di Capilano a Vancouver, un ponte molto alto, stretto e oscillante. Al termine del percorso, i soggetti venivano avvicinati da una ragazza avvenente che chiedeva loro di compilare un questionario e terminava l’incontro consegnando a ogni soggetto il proprio numero di telefono. La stessa procedura veniva ripetuta con altri soggetti di sesso maschile che attraversarono un ponte molto più stabile e alto solo tre metri. Come risultato, ben il 12% in più di soggetti del primo gruppo chiamarono la ragazza del questionario. Secondo Dutton e Aaron, ciò fu dovuto al fatto che i soggetti avevano erroneamente interpretato l’eccitazione emotiva provocata dall’attraversamento del ponte, scambiandola per un’attrazione erotica a testimonianza della natura illusoria dell’amore.
Gli esiti imprevedibili dell’interazione corpo-mente si riverberano anche in campi insospettabili, come la chirurgia estetica. Come si osserva in un recente libro, le conseguenze nocive degli interventi di chirurgia estetica vanno
dal dolore cronico dopo l’intervento a numerose infezioni fino alla riduzione – per quanto riguarda i trattamenti antirughe con il botulino – non solo della possibilità di esprimere le emozioni con il volto, ma anche di sentire quelle stesse emozioni. Il botulino è, infatti, a tutti gli effetti una tossina che paralizza i muscoli facciali con l’effetto estetico e visibile di distendere le rughe del volto. Ma le espressioni facciali non sono soltanto la manifestazione esterna di stati emotivi interni: esse possono infatti influenzare e modulare quegli stessi stati affettivi; per tale ragione la difficoltà a esprimere un’emozione facciale per via di questa paralisi muscolare indotta dal botulino può influire, diminuendola, perfino l’intensità psicologica della percezione dell’emozione (Pacilli, 2014, p. 77).
Un risultato inatteso, ma particolarmente rilevante per chi si sottopone a interventi chirurgici di questo tipo. Infine, un testo sul “linguaggio segreto dei sintomi” ci informa che: «È stato provato, per esempio, che camminare seguendo percorsi irregolari può aumentare la nostra creatività, stringere un pugno può accrescere costanza e determinazione, assaggiare una bevanda dolce può renderci più romantici e sedere su una sedia traballante mentre parliamo del nostro rapporto di coppia ce lo fa percepire più instabile.» (Pacori, 2016, p. 3). Inoltre, camminare nella natura inibisce la tendenza a rimuginare, fare jogging impedisce la depressione e infonde buon umore e tante altre attività fisiche hanno un impatto rilevante – e spesso imprevisto – sulle condizioni mentali.
In conclusione, la lezione di James e del suo Che cos’è un’emozione? è ancora oggi estremamente attuale, se non altro perché, a differenza di tante teorie elaborate in psicologia, appare ancora paradossale, controintutiva, “strana” e, come tutte le cose strane, riesce ad essere ancora stimolante e feconda di suggestioni.
Qui la traduzione integrale di Che cos’è un’emozione?
Bibliografia di riferimento
Cannon, W. B., 1927, “The James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative Theory”, The American Journal of Psychology, vol. 39, n. ¼, pp. 106-124.
Cantor, J. R., Zillmann, D., Bryant, J., 1975, “Enhancement of experienced sexual arousal in response to erotic stimuli through misattribution of unrelated residual excitation”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 32, n. 1, pp. 69-75.
Darwin, C., 1872/1975, The expression of the emotions in man and animals, University of Chicago Press, Chicago.
Dutton, D.G., Aaron, A. P., 1974, “Some evidence for heightened sexual attraction under conditions of high anxiety”, Journal of Personality and Social Psychology, vol. 30, n. 4, pp. 510–517.
Ekman, P., Oster, H., 1979, “Facial Expressions of Emotion”, Annual Review of Psychology, vol. 30, pp. 527-554.
Fine, C., 2006, Gli inganni della mente, Mondadori, Milano.
Hatfield, E., Cacioppo, J. T., Rapson, R. L., 1994, Il contagio emotivo, San Paolo, Milano.
Nisbett, R., Ross, L., 1989, L’inferenza umana, Il Mulino, Bologna.
Pacilli, M. G., 2014, Quando le persone diventano cose. Corpi e genere come uniche dimensioni di umanità, Il Mulino, Bologna.
Pacori, M., 2016, Il linguaggio segreto dei sintomi, Sperling & Kupfer, Milano.
Schachter, S., Singer, J., 1962, “Cognitive, Social, and Physiological Determinants of Emotional State”, Psychological Review, vol. 69, n. 5, pp. 379-399.