Per il negro non c’è morte naturale, morte necessaria. Ad ogni decesso si consulta lo stregone per sapere da lui chi è l’autore di tale crimine segreto e magico. Ci troviamo ancora in questa condizione di spirito e ogni morte prematura di un uomo famoso induce subito a parlare di avvelenamento, di misterioso assassinio. Tutti ricordano le leggende sorte alla morte di Gambetta, di Félix Faure; esse si collegano naturalmente a quelle che commossero la fine del diciassettesimo secolo, a quelle che oscurarono, ben più dei fatti senz’altro singolari, il sedicesimo secolo italiano. Nei suoi aneddoti romani, Stendhal abusa di questa superstizione del veleno che ai giorni nostri doveva fare ancora più di una vittima giudiziaria (Remy de Gourmont, 2000, La dissociazione delle idee, Alinea Editrice, Firenze, pp. 35-36).
Le osservazioni di de Gourmont ci introducono a uno dei temi più affascinanti della tanatologia. La letteratura etnologica ci racconta da tempo che, presso molte popolazioni preletterate, l’idea di “morte naturale” non era così scontata come oggi: in sostanza, si riteneva che le persone morissero per l’intervento di una causa umana (sortilegio, fattura, incantesimo). Per questo motivo, si cercava di individuare il “colpevole” attraverso ulteriori azioni magiche, che potevano condurre a bellicosità sfocianti in veri e propri conflitti armati.
Oggi, conquistati dall’idea di morte naturale, tendiamo a considerare con cipiglio di superiorità i poveri “primitivi”, affascinati da una morte ritenuta sempre frutto di pratiche magiche. Eppure, come ricorda de Gourmont, anche noi intratteniamo spesso lo stesso atteggiamento nei confronti dei decessi delle persone famose, soprattutto quando queste muoiono in giovane età.
La scomparsa precoce di queste persone, da alcuni di noi paragonate a divinità quasi religiose, e che popolano fittamente il nostro immaginario culturale, erotico, fantastico ecc., è spesso ritenuta inaccettabile per cui la nostra mente elabora spiegazioni sofisticate, spesso complottistiche, per illudersi che, in realtà, esse non sono morte a causa di un infarto, di un aneurisma, di una caduta o di un’altra ragione “banale”, ma perché qualcuno ha voluto la loro morte, ha tramato alle loro spalle, ha messo in atto un piano diabolico per porre fine alla loro esistenza.
In alternativa, come è successo con Elvis Presley, John Lennon e Marilyn Monroe, si preferisce credere che siano ancora in vita, seppure sotto mentite spoglie, per fuggire alla pressione soffocante della celebrità o per altre ragioni sottili che a noi comuni mortali non è dato sempre conoscere.
Insomma, anche in noi è sempre in agguato un pensiero “primitivo” sulla morte che scatta in occasione della scomparsa precoce di nomi celebri del mondo dello spettacolo, del cinema, dello show business, della politica.
Tale atteggiamento, a ben vedere, è una sorta di meccanismo di difesa che ci consente di preservare una idea di immortalità a noi necessaria per continuare a vivere. Come dire: se a ognuno di noi, persone comuni, può capitare di morire precocemente per una causa comune, a loro – ai grandi divi del cinema o della musica – questo non può accadere e, se accade, è per colpa di motivi straordinari, non comuni, in assenza dei quali vivrebbero per sempre.
È una illusione, naturalmente. Un’illusione di immortalità. Ma senza illusioni, la vita non potrebbe essere vissuta.