Si avverte una allarmante sensazione di dejà vu, leggendo “Borghesia e burocrazia” di Claudio Treves (1869-1933), articolo scritto nel 1894 per la rivista La critica sociale e qui da me trascritto. Giornalista e socialista, Treves è noto, oltre che per il suo impegno politico, per aver sfidato a duello Mussolini nel 1915, non riuscendo a provocargli che qualche lieve ferita. Pacifista e convinto antifascista, fu esiliato in Francia, dove morì nel 1933. Le sue ceneri vennero riportate in Italia soltanto il 10 ottobre 1948, dopo la conclusione del bando fascista.
Di chi e di cosa parla “Borghesia e burocrazia”? Degli impiegati pubblici. E come ne parla? Descrivendo un atteggiamento bipolare dell’opinione pubblica (e politica) nei confronti di questa categoria di lavoratori, che ricorda molto quanto accade da trent’anni in Italia.
Ci fu un tempo, afferma Treves, in cui era considerato dovere civile dare addosso ai travet nostrani, accusandoli di essere «cavallette, noiose, pedanti e divoratrici del pubblico erario». I funzionari pubblici venivano derisi, denigrati, umiliati. Si coniò perfino un neologismo – “impiegomania” – per designare una precisa deriva morale degli italiani, indicati sdegnosamente come “popolo di impiegati”.
Al tempo stesso, gli impiegati erano visti come un male necessario dalle forze borghesi conservatrici, le quali, procurando «al maggior numero di diplomati e di laureati un posticino sicuro, famelico sì ma pensionato», miravano a sopire eventuali velleità rivoluzionarie, o semplicemente ribellistiche, di masse di individui munite di titolo di studio e aspettative crescenti. Il “posto fisso”, dunque, come misura strategica per sedare e disinnescare possibili moti di contestazione della società classista. Una vecchia tattica politica, adottata a mani basse già nei primi anni dell’Italia repubblicana a scopo clientelare, che può essere sintetizzata nella seguente formula: concedi al tuo (potenziale o reale) nemico o elettore una prebenda, un’occupazione di prestigio o semplicemente un posto di lavoro, instilla in lui (o lei) l’illusione di far parte del “sistema”, e tutta la sua rabbia e le sue grida contro le ingiustizie sociali svaniranno, mentre conquisterai i suoi voti.
Qualcosa di simile sembra essere avvenuto negli ultimi tempi in Italia. Tutti ricordiamo le invettive degli Ichino e dei Brunetta contro i dipendenti pubblici, accusati di essere fannulloni incompetenti, inefficienti e privilegiati o, in alternativa, “furbetti del cartellino”, contro cui adoperare misure draconiane e paradossali: basti pensare alla cosiddetta “trattenuta Brunetta” che decurta la retribuzione per i primi dieci giorni di malattia dell’impiegato, nella convinzione che per il dipendente pubblico la malattia è per definizione una finzione. In questo caso, lo stereotipo dell’impiegato che simula la malattia diviene immediatamente realtà incontestabile con la conseguenza paradossale che il dipendente pubblico è considerato potenzialmente immune da malattia, forse immortale, per cui se dice di stare male è perché sta fingendo. Incidentalmente, tale “visione” ricorda da vicino quella del sociologo americano Talcott Parsons, secondo il quale il malato è un deviante (sick role) perché non in grado di assolvere i ruoli che la società prevede per esso.
E che dire poi della vera e propria campagna d’odio contro i dipendenti pubblici, istituzionalizzata con la nomina a ministro della pubblica amministrazione proprio di Renato Brunetta, l’odiatore della categoria per eccellenza, forte del consenso di tanti non-impiegati pubblici, accecati dall’invidia sociale, ma ciechi anche di fronte alle disuguaglianze sociali crescenti che caratterizzano la nostra società a capitalismo avanzato?
La propaganda contro i dipendenti pubblici, avviata sulla scia degli “scandali” dei furbetti del cartellino, opportunamente strumentalizzati per fomentare l’indignazione pubblica, ha reso i lavoratori pubblici un facile bersaglio e un’agile forza acceleratrice del malcontento popolare che ha trovato così il suo suitable enemy (“nemico appropriato”) su cui riversare catarticamente la propria rabbia. Il tutto senza che nessuno, se non pochi, si sia reso conto che tale propaganda serve a distogliere l’attenzione del paese dalla progressiva erosione dei diritti sociali dei cittadini, che oggi vedono messe in pericolo le grandi conquiste del welfare state, a cominciare dalla previdenza, il cui godimento è rimandato sempre più in là nel tempo tanto che già si prospetta l’immagine inquietante del dipendente pubblico costretto a lavorare con bastone, catetere e ausili per l’udito per guadagnare un diritto che evidentemente non è più percepito come tale.
Schizofrenicamente, però, alle invettive propagandistiche contro le inefficienze e le carenze del pubblico impiego, si è affiancata di recente una campagna istituzionale di segno opposto, contrassegnata dallo slogan “Più che un posto fisso, un posto figo!”, che vorrebbe «scardinare i vecchi stereotipi per raccontare come sta cambiando la Pubblica amministrazione, scoprire le opportunità del pubblico impiego e il valore di lavorare per la collettività». Così, dopo che autorevoli rappresentanti dello Stato hanno per decenni mortificato il pubblico impiego, tacciandolo di ogni possibile nefandezza e rendendolo inviso all’opinione pubblica, gli stessi rappresentanti vorrebbero ora renderlo cool con l’aiuto di qualche video che mostra sorridenti impiegati pubblici al lavoro.
La ragione di tale inversione di tendenza è nota: la pubblica amministrazione ha bisogno di personale e le campagne di odio nei confronti del pubblico impiego non rendono facile il compito del reclutamento. Meglio, allora, una bella dose di marketing in salsa ottimistica per rendere appetibile un prodotto reso nauseante da decenni di propaganda ostile.
Ma forse, come insegna Treves, l’obiettivo delle recenti iniziative di assunzione del pubblico non è solo riempire organici in affannosa difficoltà, ma anche sottrarre a possibili tentazioni contestatarie quote di popolazione umiliate dalla scelleratezza della società neoliberista in cui viviamo. Una forma di cooptazione per attenuare possibili derive protestatarie in società come quelle odierne caratterizzate da percentuali croniche di inoccupazione e disoccupazione.
Ma, se questo è vero, non dobbiamo, comunque, dimenticare il monito finale del socialista Treves, il quale, sempre in “Borghesia e burocrazia” si domandava se «è avventatezza prevedere che, precipitando i fati, un giorno, un bel 27 del mese, lo Stato borghese, dopo aver divorato tutte le forze vive della produzione, costretto da una necessità imprescindibile darà ordine di chiudere gli sportelli delle tesorerie».
Sembra fantascienza, ma se una lezione vogliamo trarre dallo scritto del giornalista torinese è che non dobbiamo mai dare nulla per scontato, nemmeno che il lavoro pubblico continuerà così come è per sempre. La storia ci insegna che ciò che gli uomini e le donne creano cambia in continuazione. Potrebbe cambiare anche il “27 del mese”.