Quando nei primi anni del XVIII secolo, il vescovo irlandese George Berkeley (1685 – 1753) enunciava il suo celebre principio esse est percipi (“essere è essere percepito”) immaginava di stabilire un criterio epistemologico empirista, non di annunciare ciò che è accaduto ai nostri secoli contrassegnati da una doppia X.
È evidente che oggi l’essere è stato completamente fagocitato dall’essere percepito, ossia dall’apparire. La realtà esiste solo nella misura in cui può mostrarsi ai nostri occhi, per lo più attraverso la mediazione di un mezzo analogico o, sempre più, digitale. La realtà è diventata una pura funzione secondaria della percezione, tanto che non apparire viene spesso vissuto come un non essere.
La spettacolarizzazione sovrana dell’esistenza fa in modo che un dolore non sia tale se non viene avvertito in televisione; una guerra non sia vera se non viene proclamata in streaming; un qualsiasi luogo diventi degno di essere visto solo se lo si vede prima sui social. A nessuno importa, ormai, che la realtà disintermediata sia altra cosa, che l’esperienza diretta possa insegnarci altro. Ciò che appare è la verità.
Prendiamo il calcio, ad esempio. Il calcio televisivo sovrasta a tal punto quello a cui si assiste dagli spalti di uno stadio che, se non abbiamo modo di (ri)vedere in televisione un goal, ci sembra che non sia mai avvenuto. Non riusciamo nemmeno a giudicare una decisione arbitrale giusta o ingiusta, se non la dissezioniamo tramite la moviola o slow motion. Eppure, dovremmo sapere che la moviola allunga gli impatti e li accentua. Una mano che sfiora il viso diventa uno schiaffo; un piede che sfiora la gamba di un avversario diventa un calcio premeditato. La moviola mostra il mondo in maniera diversa. Ma pensiamo che questa diversità sia la realtà.
Per quello che ne sappiamo, il calcio giocato potrebbe essere stato sostituito totalmente da quello trasmesso dalla televisione. Potrebbe non esistere più. Esse est percipi. Come profetizzava un piccolo racconto del 1967 di Borges e Bioy Casares, Esse est percipi appunto (in Cronache di Bustos Domecq, Einaudi, 1975): «Non esiste punteggio, né formazioni, né partite, gli stadi cadono tutti a pezzi. Oggi le cose succedono solo alla televisione o alla radio; l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937. Da quella data il calcio, come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, orchestrato da un uomo solo in uno studio o interpretato da attori in divisa da gioco davanti al cameraman».
Se vi assale il dubbio che le cose possano essere davvero in questi termini, e che forse la vostra passione sportiva possa essere solo una illusione oleografica, leggete il racconto intero dei due scrittori argentini e auguratevi un buon 2023…se vi riesce.
Esse est percipi
di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares
Vecchio frequentatore delle parti di Nuñez e dintorni, non mancai di notare che mancava dal suo posto di sempre il monumentale stadio del River. Costernato, consultai al riguardo il mio amico dottor Gervasio Montenegro, membro effettivo dell’Accademia Argentina delle Lettere. In lui trovai quella spinta capace di indirizzarmi. A quei tempi la sua penna compilava una sorta di Storia panoramica del giornalismo nazionale, opera altamente meritevole, nella quale si affannava la sua segretaria. La relativa documentazione lo aveva casualmente condotto a subodorare il busillis. Poco prima di addormentarsi completamente, mi mandò da un comune amico, Tulio Savastano, presidente del club Abasto Juniors, alla cui sede, situata nel Palazzo Amianto, di avenida Corrientes e Pasteur, mi recai. Il dirigente, nonostante il regime di doppia dieta a cui lo sottoponeva il suo medico e vicino dottor Narbondo, si mostrava ancora agile e scattante. Alquanto inorgoglito per l’ultimo trionfo della sua squadra contro la compagine canarina, si lasciò andare a confidarmi, tra un mate e l’altro, ghiotti particolari inerenti alla questione sul tappeto. Benché io mi ripetessi che Savastano era stato un tempo il mio compagno di ragazzate di Agüero angolo Humahuaca, l’importanza del suo incarico mi intimoriva e, per allentare la tensione, mi congratulai per lo svolgimento dell’azione dell’ultimo goal che, nonostante l’intervento di Zarlenga e Parodi, il centro mediano Renovales aveva realizzato, grazie allo storico passaggio di Musante.
Sensibile alla mia adesione all’undici di Abasto, il grand’uomo diede un ultimo tiro alla cannuccia esaurita del mate, dicendo filosoficamente, come chi sogna ad alta voce:
– E pensare che sono stato io ad inventare questi nomi.
– Vale a dire? – domandai gemendo – Musante non si chiama Musante? Renovales non è Renovales? Limardo non è il vero nome dell’idolo acclamato dalla tifoseria?
La risposta mi fiaccò nelle membra.
– Come? Lei crede ancora nella tifoseria e negli idoli? Ma dove ha vissuto, don Domecq?
In quella entrò un fattorino che sembrava un pompiere e mormorò che Ferrabás voleva parlare con lui.
– Ferrabás, il cronista dalla voce pastosa? – esclamai – L’animatore dei cordiali dopopranzo delle 13 e 15 del sapone Profumo? Questi miei occhi lo vedranno così com’è? Davvero si chiama Ferrabás?
– Che aspetti! – ordinò il signor Savastano.
– Che aspetti? Non sarebbe più prudente che io mi sacrifichi e me ne vada? – aggiunsi con sincera abnegazione.
– Neanche per idea – rispose Savastano –. Arturo, dica a Ferrabás che entri. Fa nulla…
Ferrabás entrò con naturalezza. Stavo per cedergli la mia poltrona, ma Arturo, il pompiere, mi dissuase con una di quelle occhiatine che sono come uno sbuffo di aria polare. La voce presidenziale sentenziò:
– Ferrabás, ho già parlato con De Filipo e Camargo. Nella prossima giornata l’Abasto perde, per due a uno. Il gioco sarà duro, ma non ricada, se lo ricordi bene, nel passaggio di Musante a Renovales, che la gente conosce a memoria. Io esigo immaginazione, immaginazione. Capito? Può andare.
Raccolsi le forze per azzardare la domanda:
– Devo dedurre che il risultato è scritto a tavolino?
Savastano, letteralmente, mi gettò nella polvere.
– Non c’è risultato, né formazioni, né partite. Gli stadi sono già demolendi che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione dei commentatori, non le è mai venuto il sospetto che fosse tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio si è giocata qui nella capitale il 24 giugno del ’37. Da quel preciso momento, il calcio, proprio come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, a carico di un solo uomo in una cabina o di attori in maglietta davanti ad un cameraman.
– Signore, ma chi ha inventato tutto ciò? Riuscii a domandare.
– Nessuno lo sa. Tanto varrebbe cercare di scoprire a chi è venuta per primo l’idea della inaugurazione delle scuole o delle visite fastose di teste coronate. Sono cose che non esistono fuori degli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la propaganda di massa è il marchio dei tempi moderni.
– E la conquista dello spazio? – gemetti.
– E’ un programma straniero, una coproduzione russo-americana. Un lodevole passo avanti, non neghiamocelo, dello spettacolo scientista.
– Presidente, lei mi mette paura – farfugliai, senza rispettare la via gerarchica -. Quindi al mondo… non succede nulla?
– Ben poco – rispose con la sua flemma inglese -. Ciò che non afferro è la sua paura. Il genere umano se ne sta in casa, spaparanzato, attento allo schermo o al commentatore, se non alla stampa scandalistica. Cosa vuole di più, Domecq? E’ il cammino gigantesco dei secoli, il ritmo del progresso che si impone.
– E se si rompe l’illusione? – dissi con un filo di voce.
– Ma cosa deve rompersi … – mi tranquillizzò.
– E se anche fosse, sarei una tomba – gli promisi -. Lo giuro per la mia passione personale, per la mia lealtà alla squadra, per lei, per Limardo, per Renovales.
– Dica quello che le pare, nessuno le crederebbe.
Squillò il telefono. Il presidente portò la cornetta all’orecchio, e con la mano libera mi indicò l’uscita.
* Dalle Cronache di Bustos Domecq (1967)
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