In un post precedente, ho descritto alcuni bias cognitivi che rischiano di avvelenare il dibattito attuale sul coronavirus. Di seguito indico alcuni bias che mi sembra contribuiscano a generare panico morale nella popolazione.
Cominciamo dalla “euristica della disponibilità”, termine con il quale si intende il fatto che tendiamo a formulare rapidi giudizi sulla probabilità che si realizzi un determinato evento, basandoci sulla facilità con cui vengono alla mente esempi del verificarsi di quell’evento. Questo significa che, quando pensiamo in modalità “euristica della disponibilità”, tendiamo a farci condizionare dalle notizie più recenti o più presenti alla nostra mente. Un esempio classico è dato dal modo in cui molte persone ragionano intorno alla criminalità. Dal momento che i media enfatizzano determinati tipi di crimini – quelli più efferati, i reati di mafia, le storie di pedofili e serial killer – sono in molti a sopravvalutare la loro frequenza nella società con la conseguenza che la rappresentazione collettiva del fenomeno criminale è fortemente distorta.
In tema di Covid-19, il fatto che i media enfatizzino in maniera estrema numeri e storie del contagio, rendendo ubiquitariamente visibili le cifre (ridotte) dei decessi a scapito di quelle (ben più numerose) dei non contagiati e dei contagiati asintomatici o paucisintomatici, e dando voce e video alle storie “esemplari” dei malati più gravi o di quelli affetti dai sintomi più spettacolari, fa sì che la maggior parte delle persone tenda a rappresentarsi il virus come particolarmente mortale e letale, circostanza che contribuisce a seminare panico tra la popolazione. E questo nonostante i tassi di mortalità e letalità del Covid-19 siano essenzialmente bassi. Inoltre, più una determinata rappresentazione viene ripetuta pubblicamente e più tende a guadagnare plausibilità, apparendo sempre più corretta e vera: è quella che si chiama availability cascade o “disponibilità a cascata”. Incidentalmente, è probabile che cedano all’euristica della disponibilità anche i virologi clinici i quali, abituati ad avere a che fare con i casi più severi di infezione da coronavirus, tendono a ritenerli rappresentativi della fenomenologia complessiva della malattia e a elaborare prognosi infauste e pessimistiche sull’evoluzione della stessa.
L’illusione della frequenza o effetto Baader-Meinhof, dal nome del gruppo terroristico che tenne sotto scatto la Germania negli anni settanta del XX secolo, si innesca quando, appena scoperta l’esistenza di qualcosa, subito dopo ci sembra di scorgerla ovunque, con una frequenza molto elevata. Ad esempio, una donna incinta tenderà a vedere donne incinte dappertutto. Se decidiamo di acquistare una Ford, improvvisamente vediamo auto della Ford dappertutto. In riferimento alla recente epidemia da coronavirus, il semplice fatto di apprendere continue informazioni sul virus e di focalizzare ossessivamente la nostra attenzione su di esso fa sì che esso “appaia” dappertutto: nel colpo di tosse di qualcuno che abbiamo incrociato, nello starnuto del vicino di casa, nel tocco casuale della mano dell’amico che è venuto a trovarci, nel comportamento sfuggente di un parente ecc. Il risultato è una percezione paranoica del fenomeno che contribuisce a generare ansia e preoccupazione.
Infine, l’effetto framing fa riferimento al fatto che il modo in cui vengono presentati, concetti, idee, numeri o scelte condiziona fortemente la maniera in cui interpretiamo e valutiamo le informazioni che ci vengono offerte. In altre parole, la “cornice” (frame in inglese) attraverso la quale inquadriamo la realtà determina il modo in cui la interpretiamo. Un esempio classico è riassumibile nel cosiddetto “problema della malattia asiatica” (Asian Disease Problem). In questo esperimento ad alcuni soggetti venne chiesto di decidere tra due cure alternative per una malattia mortale che rischiava di uccidere 600 persone. La prima cura – fu comunicato – riuscirà a salvare con certezza la vita di 200 persone. La seconda ha il 33% delle probabilità di riuscita. Si tratta, come è evidente, della medesima linea d’azione, eppure il 72% dei soggetti scelse la prima soluzione contro il 28% che optò per la seconda, ritenuta più “rischiosa”. Il contrario avvenne quando lo stesso problema venne presentato a un altro gruppo sperimentale in una “cornice” diversa. Posti di fronte alla scelta di un programma collaudato che avrebbe causato la morte di 400 persone e uno sperimentale per il quale esisteva una probabilità del 66% che morissero tutti, i soggetti questa volta scelsero in grande maggioranza l’opzione più “rischiosa”.
Nel contesto pandemico che stiamo vivendo, la ripetizione martellante e quotidiana di dati su contagi e decessi espressi in numeri assoluti e in forme cumulate, linearmente incrementali e del tutto decontestualizzate (a dispetto del fatto che l’epidemiologia si basa su proporzioni e percentuali) comunica una inesorabile percezione di pericolosità crescente e letale che, unita all’enfasi sensazionalistica su alcuni dati – contagiati e deceduti – a scapito di altri – asintomatici, paucisintomatici – e alla narrazione esclusiva di storie “esemplari” di malati “intubati” o particolarmente sofferenti stimola rappresentazioni apocalittiche del Covid-19 che suscitano inquietudine e terrore. E questo, come detto, nonostante il tasso di letalità di questa patologia sia basso.
In ultima analisi, sembra di poter dire che le narrazioni dominanti nei media incoraggino alcuni bias che già ordinariamente tendono a distorcere o, comunque, condizionare la nostra rappresentazione della realtà, orientando la nostra percezione verso scenari funesti. Senza negare la realtà del Covid-19, è evidente che riequilibrare le tendenze attuali dell’informazione e offrire “cornici” meno catastrofiche e realistiche del fenomeno virale può consentirci di affrontare l’emergenza sanitaria in termini più composti ed efficaci
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