Le cosiddette true-crime narratives – storie, articoli e testi ispirati a fatti criminosi realmente accaduti – non sono una invenzione recente. In Cold Blood (A sangue freddo) (1966) dello scrittore americano Truman Capote è, per qualcuno, l’antesignano del genere nel XX secolo, ma sono noti già nel XIX secolo reportage giornalistici, romanzi a puntate e racconti brevi che farebbero concorrenza a molte narrazioni seriali televisive di oggi. Possiamo fare i nome di Balzac, Zola, Dickens e altri ancora. Un articolo del «Guardian» del 2016 rintraccia uno dei primi casi di giornalismo true-crime in un articolo di Benjamin Franklin intitolato The Murder of a Daughter (1734). La sua pubblicazione rivela che, già nel XVIII secolo, almeno negli Stati Uniti, il pubblico dei lettori apprezzava queste storie e chiedeva che fossero narrate in tutti i loro macabri dettagli. Per quanto a mia conoscenza, l’articolo di Franklin non è mai stato tradotto in italiano. Di sotto ne riporto la mia traduzione. Da esso traspare che, allora come oggi, ci si interrogava su come fosse possibile che un genitore potesse uccidere i propri figli. Il mistero è ancora insoluto e le storie di questo tipo – ricordiamo il caso di Annamaria Franzoni – continuano a essere seguite con una passione smodata che, a volte, ha qualcosa di morboso.
L’omicidio di una figlia
Sabato scorso, si è tenuta, presso il tribunale penale superiore, il processo di un uomo e sua moglie, accusati di aver ucciso la figlia che l’uomo aveva avuto da un precedente matrimonio (una ragazza di circa 14 anni), cacciandola di casa e esponendola a stenti che le avevano causato, in seguito, una dolorosa affezione e una zoppia. Durante l’infermità, invece di fornirle le dovute cure e attendere a ogni necessità, i due avevano trattato la ragazza con estrema crudeltà e barbarie, lasciandola debilitare nella sua malattia. Quando chiedeva da mangiare, le infilavano a forza in bocca i suoi escrementi con un mestolo di ferro e le praticavano un gran numero di brutalità simili, finché la ragazza deperì e, alla fine, morì. Le testimonianze contro la coppia erano numerose e, in molti casi, provate, ma si ritiene che l’opinione del medico che aveva visitato la ragazza, secondo cui, qualsiasi trattamento avesse ricevuto, la patologia di cui la ragazza soffriva era tale che avrebbe, comunque, con tutta probabilità, posto fine alla sua vita nel periodo in cui morì, ebbe una tale influenza sulla giuria, che questa emise solo un verdetto di omicidio colposo. Un verdetto che il giudice (in un breve, ma patetico discorso agli imputati prima della sentenza) descrisse come estremamente favorevole, aggiungendo che, dal momento che il racconto delle loro inaudite barbarie aveva oltremodo sconcertato tutti i presenti, a meno che i due non fossero totalmente inebetiti, la riflessione interiore sul loro gravissimo crimine avrebbe dovuto risultare più terribile e scioccante per loro della pena che sarebbe stata loro inferta. Infatti, essi non avevano solo trasgredito le leggi di ogni nazione, ma avevano perfino infranto la legge universale della natura poiché non sono note creature che, per quanto selvagge, brutali e feroci, non abbiano radicati in sé l’amore e la cura per la loro tenera progenie, e che non siano disposte a rischiare la vita per proteggerla e difenderla.
Ma questo non è l’unico caso di incomprensibile insensibilità derivante dal consumo di alcol che l’epoca attuale ci offre. I due furono condannati alla pena della mano marchiata; pena eseguita su entrambi presso il tribunale, ma prima sull’uomo, che si offrì di ricevere anche il marchio della moglie se questa fosse stata perdonata. Gli fu però detto che la legge non lo ammetteva.
«The Pennsylvania Gazette», 24 ottobre 1734