È certo che John Henry Newman (1801–1890), teologo, cardinale, filosofo inglese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, non avrebbe mai creduto, componendo la sua Apologia Pro Vita Sua (1864), di battezzare una delle strategie argomentative più diffuse al giorno d’oggi, talmente diffusa da far parte integrante e potente del repertorio retorico di imbonitori, pubblicitari, populisti, persuasori di vario genere.
Convertitosi al cattolicesimo, provenendo dall’anglicanesimo, Newman fu coinvolto in una serie di controversie non solo religiose, principalmente con Charles Kingsley (1819-1875), esponente di spicco della Chiesa anglicana. Tali controversie divennero particolarmente tese dopo che Newman lasciò la sua posizione di parroco anglicano della Chiesa di St. Mary a Oxford per trasferirsi a Littlemore dove nel 1845 si convertì al cattolicesimo.
Il retroterra di tali polemiche è sostituito da una serie di pamphlet cui contribuì lo stesso Newman, il quale, insieme ai suoi alleati, diede alle stampe i cosiddetti Tracts for the Times, piccoli scritti teologici in cui richiamava la Chiesa anglicana a principi morali e teologici vicini a quelli cattolici. A tali scritti risposero i pamphlet di parte anglicana che mossero accuse pesanti nei confronti di Newman, spesso sfocianti in rilievi personali e morali.
La Apologia Pro Vita Sua fu pubblicata da Newman proprio per difendere le sue opinioni religiose e costituisce, ancora oggi, un’opera degna di essere letta, anche per il suo carattere letterario.
Al di là di queste vicende teologiche, che potrebbero sembrarci lontane e poche interessanti, lo scritto di Newman è importante anche perché in esso troviamo coniato per la prima volta un termine che ha dato vita, come detto, a una precisa strategia retorica e argomentativa nota come “avvelenamento del pozzo” (poisoning of the wells). L’espressione, come spiega Newman, deriva dall’antica ed efficacissima pratica militare di avvelenare i propri pozzi per impedire le invasioni degli eserciti nemici. Metaforicamente, essa è diventata una potente strategia comunicativa per “bloccare” i propri interlocutori, rendendo sterili le loro argomentazioni.
Propriamente, per “avvelenamento del pozzo”, si intende un tipo di strategia argomentativa per cui la posizione sostenuta dall’avversario viene preliminarmente screditata in pubblico, seminando sospetti circa la sua buona fede, attendibilità o credibilità. Questa tattica permette di inquinare alle radici tutto ciò che quello (quella) afferma, ha affermato o affermerà in quanto irrilevante, compromesso, falso o sospetto. In questo modo, l’“avvelenatore” fa in modo di non rispondere alle obiezioni o critiche dell’interlocutore che scontano una sorta di peccato originale irredimibile, una condanna mai perdonabile.
L’avvelenamento del pozzo è un caso particolare di argumentum ad hominem, nota fallacia consistente nello svalutare o contestare un argomento, criticando chi lo sostiene per un suo (presunto) difetto, orientamento, appartenenza, provenienza e altri elementi che precedono la controversia.
L’avvelenamento del pozzo può assumere più forme.
Può tradursi, ad esempio, nella diffusione di informazioni negative, vere o false che siano, contro il proprio interlocutore, che suggeriscono ad esempio che egli (o ella) è pazzo (pazza), incompetente o ha precedenti penali o, in passato, ha esibito comportamenti disdicevoli, minando, dunque, alla fonte la sua credibilità. La conclusione implicita, in questi casi, è che qualsiasi cosa l’interlocutore affermi, non è accettabile in quanto egli (ella) è…. Come fidarsi del resto di qualcuno che possiede quelle caratteristiche negative?
Un’altra forma di avvelenamento del pozzo prevede una sorta di prelazione morale sul futuro. Ciò avviene, ad esempio, quando si sostiene: “Chiunque osi contraddire questa posizione è una persona disonesta, malvagia, infida”. In altre parole, viene applicato un attributo negativo a eventuali futuri oppositori, nel tentativo di scoraggiare il dibattito in partenza. Eventuali contestazioni in contraddizione con la posizione espressa vengono automaticamente deprivate di ogni vis retorica.
L’avvelenamento del pozzo è una strategia ampiamente utilizzata nei dibattiti contemporanei. In ambito politico, ad esempio, etichettare l’avversario in base alla propria appartenenza ideologica o partitica serve spesso a spuntare le sue tesi, decapitandole sul nascere. Un’accusa di “comunismo” o “fascismo”, precedente a ogni discussione nel merito, può valere a insinuare dubbi e sospetti nei confronti di qualsiasi tesi avanzata dall’interlocutore. È evidente come ciò non consenta di valutare una iniziativa per i suoi meriti dal momento che l’alone negativo dell’appartenenza politica inibisce ogni seria considerazione della proposta.
Lo stesso avviene se si muove un’accusa di interesse al proprio avversario. Come è noto a tutti coloro che hanno vissuto la recente pandemia da Covid-19, le parole di medici, biologi, scienziati sono state spesso valutate meno per i loro meriti che per i loro presunti legami (seminati ad arte) con case farmaceutiche o ineffabili interessi di parte. In casi estremi, la stessa scienza è stata percepita come interamente piegata agli interessi commerciali di potentissime multinazionali.
Colore della pelle, orientamento sessuale e religioso, provenienza geografica, attività svolta: sono solo alcuni degli elementi su cui è possibile far leva per avvelenare il pozzo della contesa.
Lo sapeva bene John Henry Newman, il quale dedica alcune pagine della sua Apologia Pro Vita Sua a difendersi dai tentativi di Charles Kingsley di farlo apparire preliminarmente come un furfante o uno sciocco per alienargli le simpatie dei lettori. Newman era perfettamente consapevole del pericolo che correva in virtù della subdola tattica adoperata dall’avversario. Grazie alla lettura delle sue pagine (qui tradotte da me in italiano), ora siamo anche noi consapevoli di un’arma retorica che forse è già stata usata contro di noi e certamente potrebbe esserlo in futuro.