Jourdain, il protagonista del Borghese gentiluomo di Moliere, confessa di non essere consapevole di parlare in prosa da quarant’anni. Non sa che la stragrande maggioranza dei suoi discorsi sono in prosa e che l’alternativa è il verso. Ugualmente, noi, novelli Jourdain, non sappiamo di utilizzare figure retoriche di cui non conosciamo neppure il nome, ma che pure costituiscono una parte importante del nostro discorso quotidiano.
È il caso dell’asteismo. Questo tropo consiste nel lodare o lusingare un comportamento, facendo finta di rimproverarlo o biasimarlo. L’esempio più noto di asteismo è quando, di fronte a un regalo, obiettiamo: «Perché l’hai fatto? Non dovevi» oppure «Adesso mi fai dispiacere/mi offendi» ecc. La finta critica può riguardare anche noi stessi: «Che cafone sono stato! Non avrei dovuto portarti in quel locale» è un modo per attirare obiezioni compensative che hanno lo scopo di lodare la nostra scelta («Ma che dici? È un locale bellissimo!»). In alcuni casi, l’asteismo può diventare una forma di fishing for compliments, come quando una donna confessa all’amato di indossare un abito poco appropriato per sentirsi dire: «Stai benissimo. Sei stupenda!». Infine, è evidente l’affinità con altre figure retoriche come l’ironia e l’antifrasi.
Il termine deriva dal greco [asteismós], a sua volta derivante da [ásty] “città” e già questo ci dice che l’asteismo si configura come una forma retorica tipica degli ambienti urbani e “civili”, tanto che il finto “Non dovevi” è diventato un luogo comune delle nostre interazioni ordinarie.
Stranamente, il termine non è registrato dalla maggior parte dei dizionari. Forse perché è percepito come un termine troppo settoriale. Eppure, siamo tutti asteisti. Anche se, come il Jourdain di Moliere, non lo sappiamo.