In un post precedente, avevo fatto notare come lo sport sia pervaso da una serie di luoghi comuni piuttosto coriacei che fanno parte del senso comune collettivo. Uno di questi, ripetuto ad nauseam, è quello secondo cui Pierre de Coubertin (1863-1937) avrebbe pronunciato la celebre frase “L’importante non è vincere, ma partecipare”. In realtà – dicevo – la paternità della frase è da attribuire al vescovo anglicano Ethelbert Talbot, il quale era convinto che «Nella vita la cosa essenziale non è conquistare successi ma battersi bene».
Come fa notare, però, l’antropologo Bruno Barba, ciò significa che «in pratica, “non trionfare, ma combattere” sarebbe l’essenza dello sport olimpico, qualcosa di diverso, forse di opposto rispetto a “partecipare”» (Barba, B., 2021, Il corpo, il rito, il mito. Un’antropologia dello sport, Einaudi, Torino, p. 217).
È curioso come una frase che dovrebbe rappresentare una chiara indicazione “fraterna” sul modo di intendere lo sport, sia, in origine, un invito alla lotta, qualcosa di potenzialmente contrario alla formula retorica da tutti ancora oggi strombazzata.
Come ribadisce lo stesso Barba, «la narrazione dei Giochi olimpici moderni si ammanta d’una serie di mistificazioni arrivate fino a noi. Il clima di fraternità è smentito da tutta una serie di fatti storici eloquenti. E niente suona più falso del motto «l’importante è partecipare», che retoricamente viene designato come lo slogan delle Olimpiadi» (Barba, 2021, p. 217).
A scavare, poi, si scopre che lo sport è stato frequentemente utilizzato al sevizio di interessi nazionalistici, per promuovere la “vitalità” nazionale. Ancora Coubertin era fermamente convinto che lo sport potesse essere un utile mezzo terapeutico per guarire la società dalle proprie nevrosi: lo sport – diceva – «è uno strumento psichico senza confronti e, lo si noti, dinamico, a cui ci si può richiamare con profitto, nel trattamento di molte psiconevrosi. Infatti, molto spesso, le psiconevrosi si distinguono per un certo calo della virilità, e non c’è niente di meglio che lo sport per rinvigorirlo e mantenerlo» (de Coubertin, P., 1913, Essais de psychologie sportive, Librairie Payot, Lausanne e Paris, p. 166). Coubertin era inoltre convinto che lo sport avesse una importante funzione di pacificazione all’interno della nevrotica e rabbiosa società moderna (Hoberman, J.M., 1988, Politica e sport, Il Mulino, Bologna, p. 190).
Infine, per Coubertin, la stampa sportiva «esercita un’influenza nociva in virtù del suo sensazionalismo iperbolico. Ma le autorità politiche possono utilizzare lo sport anche per neutralizzare l’irrazionalità attraverso un equilibrio igienico» (Hoberman, 1988. p. 191).
Insomma, altro che fratellanza universale! Lo sport, per il celebre Coubertin, rappresentava uno straordinario strumento al servizio del nazionalismo e dell’inquadramento delle “irrazionalità” delle masse; un mezzo di disciplinamento collettivo, come in effetti ancora oggi spesso è, oltre che un sistema per apprendere a lottare e combattere in un mondo in cui la lotta rappresenta darwinianamente un modo per sopravvivere.
Insomma, lo sport non è ecumene, anche se ci piace tanto pensare che lo sia.