Si amano più i figli o i propri genitori? Per Adam Smith, autore di Teoria dei sentimenti morali, non ci sono dubbi. L’affetto che si nutre per i figli è superiore a quello che si nutre per i padri. A tal punto che esso si muta in avversione in età avanzata. Leggiamo le sue parole: gli affetti
sono per natura indirizzati più direttamente verso i […] figli che verso i […] genitori, e la […] tenerezza per i primi sembra generalmente un principio più attivo della […] reverenza e gratitudine verso i secondi. Nello stato naturale delle cose […], l’esistenza di un figlio, nei primi tempi, dipende del tutto dalla cura del genitore, quella del genitore non dipende naturalmente dalla cura del figlio. Sembra che agli occhi della natura un bambino sia un oggetto più importante di un uomo anziano, e suscita una simpatia più viva, oltre che più universale. E così deve essere. Un bambino ci fa aspettare, o almeno sperare, ogni cosa. In casi normali, è molto poco quel che possiamo aspettare o sperare da un anziano. La debolezza di un bambino suscita affetto anche nell’uomo più rude e duro. Solo l’uomo buono e virtuoso, invece, non considera con disprezzo e avversione le infermità che accompagnano l’età avanzata. Normalmente, l’uomo anziano muore senza che nessuno lo rimpianga molto. È invece difficile che un bambino muoia senza che qualcuno non ne abbia il cuore spezzato (Adam Smith, 1995, Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano, pp. 437-438).
Sarebbe la natura stessa, quindi, a indirizzare i nostri affetti più verso i figli che verso i genitori. E sarebbe la natura stessa ad autorizzare disprezzo nei confronti degli acciacchi della terza età.
È questa una prospettiva che oggi definiremmo ageista in quanto opera una discriminazione nei confronti di un gruppo di età in base, appunto, all’età. Discriminazione tanto più grave in quanto basata sul capzioso argomento della “natura”.
Ancora oggi si discrimina l’anziano perché è “alla fine della vita”, perché i suoi malanni “sono inevitabili”, perché la “vita va avanti”, perché “viva la gioventù” e così via. In questo modo, si legittima l’esclusione e lo screditamento delle fragilità ultime della vita, ritenute meno meritevoli di attenzione e cura rispetto ad altre fragilità, istituendo una gerarchia di valore che vede inevitabilmente l’anzianità all’ultimo posto.
È per questo, forse, che l’ageismo è meno indagato di altri ismi (sessismo, maschilismo, abilismo, classismo ecc.) e, anzi, sembra quasi rimosso, talvolta, dal novero degli “oggetti culturali” degni di studio.
L’atteggiamento di Smith nei confronti degli anziani è ancora presente tra noi e si annida irriflesso nelle nostre coscienze. Nonostante la popolazione anziana mondiale sia destinata a crescere numericamente nei prossimi decenni, sembra che l’ageismo interessi a pochi, anche tra sociologi e psicologi. Una circostanza che dovrebbe farci riflettere, ma – banalmente – non lo fa.