È proprio vero! Amiamo lamentarci di ciò che accade nel mondo salvo non riuscire a fare a meno proprio di ciò di cui ci lamentiamo. Si tratta di uno dei paradossi della modernità su cui rifletteva già qualche anno fa Zygmunt Bauman in un brano del suo Le sfide dell’etica, (Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 209-210) che è opportuno riportare nella sua lunghezza.
Noi tutti ci lamentiamo per l’inquinamento e per il disagio dovuti alla privatizzazione del “problema dei trasporti” attuata nella forma del commercio di automobili, ma la maggior parte di noi si opporrebbe decisamente all’abolizione delle auto private, mentre un’alta percentuale si guadagna da vivere, direttamente o indirettamente, con attività legate al prospero mercato automobilistico. Di conseguenza, ogni rallentamento nella produzione di automobili viene per lo più interpretato come una catastrofe nazionale. Tutti ci opponiamo all’accumulo dei rifiuti tossici, ma gran parte di noi cerca di sedare le proprie paure esigendo che tali rifiuti siano scaricati in casa altrui (purché lontana).
La dichiarazione di guerra contro il colesterolo fa scendere in piazza gli allevatori di mucche da latte in difesa del mercato del latte e dei latticini. La crescente consapevolezza popolare dei pericoli derivanti dal fumo significa il fallimento non delle compagnie del tabacco (che possono facilmente diversificare il loro capitale) ma dei milioni di coltivatori poveri per i quali la tabacchicoltura è la sola fonte di sostentamento. Vogliamo macchine, e macchine più veloci, per raggiungere le foreste alpine, solo per scoprire alla fine del viaggio che non esistono più, che sono state distrutte dai gas di scarico. Possiamo anche nutrire una profonda diffidenza nei confronti di un sistema industriale che, nel suo insieme, genera pericoli in continuazione, ma ogni suo frammento troverà facilmente in manager e impiegati del settore i suoi difensori più strenui e fidati, pronti a combattere per prolungarne l’esistenza.
Rabbrividiamo al pensiero degli stermini di massa, ma molto meno al pensiero degli strumenti che li rendono possibili; i proprietari, i lavoratori, i negozianti e i parlamentari locali non esitano a unire le loro forze per proteggere le fabbriche di armi, i cantieri per la costruzione di navi da guerra o le industrie produttrici di sostanze chimiche potenzialmente letali (a condizione che, naturalmente, queste stesse fabbriche siano “sicure dal punto vista ambientale” per gli elettori dei parlamentari). Nuove ordinazioni di armi vengono accolte con entusiasmo, il loro annullamento è causa di proteste. Una volta declinato l’“impero del male”, con i suoi immensi istituti militari di ricerca e di sviluppo per la progettazione di armi “nuove e migliori”, non avendo più ragioni per liberarci periodicamente delle nostre scorte di armi inutilizzate in nome dell’autentico o presunto “progresso” del nemico, vengono attivamente cercati – con il nostro sostegno – nuovi bersagli, allo scopo di sgomberare magazzini che traboccano di armi e fare spazio a nuove e continue forniture.
Mentre noi sogniamo un mondo più sicuro e più pacifico, i mercanti d’armi, sovvenzionati o no dai governi, cercano d’ingraziarsi dittatori piccoli e grandi, promuovendo la loro merce non come armi, ma come strumento del potere e del riscatto dei poveri. Infine, siamo molto preoccupati per quella che chiamiamo “esplosione demografica”, ma tutti – com’è naturale, giusto e ovvio – accogliamo entusiasticamente come “progresso” i passi avanti fatti nel prolungamento della vita, individuale e, ovviamente, ciascuno di noi è desideroso di trarre un vantaggio personale dalle sue conquiste. Ma non si tratta semplicemente del fatto che ciò che è veleno per alcuni è cibo per altri; ancora più sconcertante per il fronte unito antirischio è che sostanze che sono velenose se assunte in dosi massicce, a piccole dosi si dimostrino il cibo quotidiano di cui la maggior parte delle persone non può, o non vuole, fare a meno.
Dalle osservazioni di Bauman ricaviamo una prospettiva che ho definito “enantiodromica” sulla modernità. Dai fenomeni comunemente ritenuti negativi (inquinamento, fumo, automobili, sovrappopolazione, armi) derivano conseguenze anche positive (maggiore mobilità, crescita delle industrie, maggiore densità e varietà delle relazioni) che rendono estremamente difficile assumere un atteggiamento di netta condanna nei confronti dei suddetti fenomeni.
Ho scritto qualche anno fa un libro sul tema dell’ambiguità enantiodromica in criminologia dove osservavo che, ad esempio, tra le conseguenze del rapimento di un bambino può esserci il ridestarsi della solidarietà all’interno di una comunità; la prostituzione può salvaguardare, secondo alcuni autori, la sacralità del matrimonio; il gioco d’azzardo può servire a risanare le casse dello stato; la criminalità organizzata “dà lavoro” a masse di diseredati; la corruzione è abominevole, ma indubbiamente “lubrifica” alcuni procedimenti amministrativi ecc.
Si tratta di fenomeni di cui non vorremmo mai sentire parlare, ma con cui non possiamo non confrontarci. Eppure, sono abitualmente trascurati dalla criminologia tradizionale, forse perché imbarazzanti, spiazzanti, dissacranti. Per una analisi approfondita della prospettiva enantiodromica, rimando ovviamente al mio Verso una criminologia enantiodromica, Aracne Editrice, 2015.