Come si traduce “incidente stradale” in inglese? Per i meno avvezzi a questa lingua, il rischio di tradurre “incidente” con incident piuttosto che con accident è alto. Si tratta, infatti, di un classico false friend. Di norma, incident descrive un avvenimento che potrebbe risultare sgradevole e negativo. Accident invece descrive un evento negativo imprevisto e involontario come, tra l’altro, un incidente stradale. In italiano, “incidente”, dunque, corrisponde per lo più ad accident.
Un tempo, però, le cose non stavano in questi termini. Anzi, c’è stato un periodo in cui, in Italia, si è oscillato tra “accidente” e “incidente” per descrivere uno scontro tra auto o tra un un’automobile e una persona o oggetto. Lo testimonia Giorgio Boatti in una pagina molto interessante del suo Bolidi, che vale la pena di leggere per intero:
Le parole che si usano non sono mai casuali. Nel primo giungere dell’automobile quando si registrano delle disgrazie della strada si usa, per un certo periodo di tempo, il termine “accidente”. L’etimologia della parola – “accidere”, dunque cadere addosso, venire dall’alto, colpire improvvisamente, accadere – è significativa della fatalità che si assegna all’accaduto, quasi una folgore che trafigge il povero mortale che ha osato motorizzarsi e spingersi a velocità mai conosciute dall’uomo.
Il Regolamento [del 28 luglio 1901 che concerne le automobili, anzi i “veicoli semoventi senza guida di rotaie”] usa ancora questo termine che però, nel giro di pochissimi anni, si trasforma e viene sostituito. Di lì a breve, nelle cronache che appaiono sulla stampa e nel linguaggio comune, ecco che appare non più l’“accidente” ma l’“incidente”.
Il termine – più che dal latino “incidere”, cadere dentro, è desunto dal significato che gli viene attribuito nella geometria – e si riferisce all’incontro tra linee che viaggiano sullo stesso piano: dunque da un evento che aveva una simbolica e solenne verticalità si passa alla prosaicità di un fatto che aderisce alla scabra piattezza del suolo.
Nel luglio del 1902 in una delle popolarissime copertine disegnate da Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» si parla ancora di un grave “accidente automobilistico” avvenuto in quel di Chivasso. Lì una grande vettura a motore, non riuscendo a prendere velocità sulla salita della strada di Cimena, comincia a scivolare all’indietro sino a precipitare nel burrone sottostante. Nell’urto i due occupanti, un uomo e una donna, vengono sbalzati dall’abitacolo e riportano ferite piuttosto gravi. Però rifiutano di declinare i loro nomi e, ancora più misteriosamente, di spiegare come mai avessero con sé, oltre a diverse valigie, alcune gabbie contenenti scimmie, pappagalli, uccelli rari e tartarughe.
Tre anni dopo, a proposito del noto episodio accaduto alla regina Margherita – l’auto sbalzata dai sassi posti [da alcuni pastori stufi dell’auto della regina che spaventava mucche e pecore] – non si parla più di “accidente” ma di “incidente”.
Il termine ormai è entrato nell’uso comune e l’8 settembre 1907 illustra l’ennesima copertina della «Domenica del Corriere» dedicate alle tragedie della velocità: questa volta si tratta di un’auto potente, una 40 cavalli, che in un’alba domenicale percorre la strada da Milano a Torino a oltre 80 chilometri all’ora. C’è un po’ di foschia e chi guida non scorge il passaggio a livello, chiuso, della ferrovia. In quel momento sta giungendo un treno merci e la vettura, con i quattro occupanti, finisce con l’urtare uno dei vagoni, schiantandosi ed esplodendo di lì a poco. Muoiono subito il marchese Giulio Pallavicino di Priola di trentadue anni e l’avvocato Gustavo Malvano di trentasette, entrambi torinesi. Si salva lo chauffeur, che viene messo agli arresti, e il proprietario della vettura, l’industriale Migliardi, che dal letto d’ospedale dichiara: «A poco a poco la follia della velocità ci aveva assaliti» (Boatti, G., 2006, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Mondadori, Milano, pp. 199-200).
Un esempio simile a quello di accidente/incidente riguarda il false friend morbid che, in inglese, vuol dire “morboso”, non “morbido”. Eppure, non è difficile trovare, narrazioni ottocentesche in cui il termine italiano coincide con quello inglese. Del resto, “morbido” deriva dal latino morbus “malattia”.
La storia narrata da Boatti ci insegna che le parole subiscono modifiche e trasformazioni nel corso del tempo per cui dovremmo essere più umili quando rimproveriamo il prossimo per un errore lessicale o grammaticale. Significati o regole che tendiamo a considerare eterni possono cambiare radicalmente da un periodo all’altro, destabilizzando le nostre più profonde convinzioni linguistiche.
Eppure, c’è chi guarda alla grammatica come all’ultimo avamposto dell’inflessibilità normativa. In realtà, se inforchiamo le lenti dello storico, ci rendiamo conto che nemmeno la lingua può contare su dogmi inscalfibili. No, dogmi eterni ormai non ce ne sono più! Neppure, nella religione.