Il Carnevale è una festa cristiana o pagana? Ha qualcosa a che vedere con la religione o è un evento puramente laico?
Considerando i dubbi e gli interrogativi che puntualmente riaffiorano sulla “natura” di questa festività, è più che lecito porsi sul Carnevale domande come quelle proposte. Soprattutto perché le origini del Carnevale si perdono lontane nei tempi e sono tutt’altro che chiare.
Nell’immaginario collettivo, domina l’interpretazione secondo cui il suo nome deriverebbe da un latineggiante carnem levare, che rimanderebbe a un digiuno-privazione prequaresimale di chiara ispirazione cristiana. Ma la verità è un’altra, come mostra l’antropologo Giovanni Kezich nel suo Carnevale. La festa del mondo.
Per Kezich, il termine Carnevale designa un confuso coacervo di antiche ritualità pagane, sopravvissute ai secoli e confluite in ambito urbano, che celebravano la natura, la fertilità dei campi, l’età dell’oro. Tra queste, in particolare, le feste dei lupercali, degli ambarvali e dei saturnali. Le sue origini sono, quindi, pagane.
Per questo motivo, il Carnevale, al fine di “sopravvivere”, dovette venire a compromessi con il cristianesimo per cui, nel Medioevo, divenne essenziale, anche attraverso ipotesi etimologiche prive di fondamento, legittimarne lo status.
Il nome carnelevare, antesignano di carnevale, fece la sua timida apparizione alla metà del X secolo, in un atto latino di Subiaco del 965, a titolo di mera scadenza fiscale chiesastica, forse per assimilazione al carniprivium, la domenica di quinquagesima, prescritta ai chierici, a partire dalla quale cominciava l’astinenza dall’uso delle carni. Solo più tardi, alla fine del XII secolo, il termine assunse il significato ludico a noi noto.
Per Kezich, l’etimologia di Carnevale va ricercata nel bagaglio degli antichi lemmi rituali pagani impropriamente assimilati al concetto di carniprivium. L’antropologo ipotizza che esso derivi da locuzioni come carmen arvale o carmen saliare che rimandano, come detto, ai riti dei lupercali, ambarvali, saturnali e simili. La necessità, però, di rendere gli antichi riti funzionali all’ideologia religiosa cristiana ha trasformato questi in una festa propedeutica al periodo di penitenza successivo. Tale necessità ha generato storie prive di fondamento, come quella, famosissima, per cui Carnevale deriverebbe, appunto, da carnem levare, che ne assegna l’origine a una sorta di cerimonia di addio collettivo al consumo alimentare di carne, in previsione della imminente quaresima.
L’etimologia del carnem levare individua il fulcro della festività carnevalesca in un ipotetico momento di passaggio tra un consumo alimentare eccessivo di carne alla completa astensione dalla stessa. Ma tale etimologia non convince. Innanzitutto, un simile momento di passaggio al regime alimentare “di magro”, corrispondente ad esempio allo scoccare della mezzanotte di Natale, non viene mai definito in modo esplicito, tanto più che il cibo di carnevale è costituito, come è noto, da semplici dolci fritti di farina e uova, e che il sabato o il martedì grassi, a dispetto del loro nome, sono sempre stati giorni di merende consumate in disordine qua e là più che di grandi mangiate. Esiste certamente un rito d’ingresso nella quaresima, che è l’imposizione delle ceneri all’alba del mercoledì omonimo, ma guardando a ritroso non troviamo alcun rito equiparabile d’addio del carnevale, che nel contesto liturgico cristiano non esiste. L’idea di una celebrazione del carniprivium, ossia di un carnem levare festeggiato solennemente da schiere di ghiottoni impenitenti, sembra pertanto ispirarsi a un immaginario esercitatosi a posteriori, cioè a partire dall’etimologia più o meno spuria ma già ben consolidata del carnem levare debitamente messa in scena con un po’ di fantasia, piuttosto che viceversa.
C’è inoltre un altro aspetto. Anche ammettendo che possa esservi stato in qualche punto del passato un ritualizzarsi accreditato dell’improvvisa interruzione del regime alimentare “grasso” in funzione di quello “magro”, non si capisce perché tale rito sia stato prima designato e poi comunicato in un latino molto discutibile. Levare, infatti, in latino vuol dire “alzare, sollevare”, non certo “privare” o “fare a meno di”. L’espressione carnem levare non è, dunque, minimamente credibile. Lo stesso si può dire per carnem laxare (da cui deriverebbe “carnasciale”) perché laxare in latino vuol dire “rilasciare, rilassare” e non “lasciare”: segno che questi riti parlano il latino del XIII secolo, e la loro denominazione è il frutto di qualche tentativo maldestro di interpretazione estemporanea, a cura di gente che non intendeva più il latino delle origini.
Carnevale è, dunque, il frutto di uno sdoganamento di antichi riti in funzione di un possibile compromesso con il successivo periodo penitenziale. È un costrutto ad hoc, modellato sulla necessità urgente di cristianizzare la sua festa e di renderne i fasti rappresentabili all’interno di contesti urbani fortemente impregnati di cristianesimo.
Resta il fatto, però, che tale “compromesso” non viene più colto come tale dai contemporanei, ignari delle origini pagane del Carnevale. Anzi, a celebrare questa festa pagana sono spesso proprio coloro che si scagliano acriticamente contro Halloween, accusato di essere una festività pagana di ritorno con “evidenti” connotazioni sataniche.
Forse, però, Carnevale persiste candido e immacolato nelle nostre teste perché festa tradizionale, a cui, cioè, abbiamo fatto l’abitudine da secoli. A differenza di Halloween, che, solo in tempi relativamente recenti, è fuoriuscito dai confini (commerciali) degli Stati Uniti e viene ancora vissuto, al momento, come una festa “che non ci appartiene”. Tra qualche decennio, anch’essa si imprimerà saldamente nelle nostre menti, finendo con il superare ogni forma di resistenza ideologica fino a diventare “tradizione”, ossia “abitudine”.
Fonte: Giovanni Kezich, 2021, Carnevale. La festa del mondo, Laterza, Bari-Roma, pp. 121-129.