Ci sono due cose, tra tante, che proprio non sopporto. Mi arrischio a dire che le odio, come fanno gli adolescenti quanto qualcosa li irrita.
La prima cosa.
Le persone che, rivolgendosi a me, esordiscono con “Perdonami!”.
“Perdonarti?”, mi verrebbe da dire. “Non sono un prete! E poi che cosa hai da farti perdonare? Quali peccati hai commesso o hai intenzione di commettere? Dovrei preoccuparmi? O assolverti? Nel secondo caso, non ne avrei nemmeno la facoltà. E allora perché l’indice e il medio della mia mano destra sono già nella posizione del gesto della benedizione?”.
Barattando cortesia con sottomissione, “Perdonami!” è un inutile salamelecco, un esordio da servi, un prologo da schiavi, un rachitismo della mente. Comunica subordinazione e scarsa autostima. Da evitare assolutamente se volete essere rispettati nella vita. Ottimo, se volete ingraziarvi un potente che adora – o ha bisogno costante di – essere incensato per compensare il profondo baratro di nullità che sente dentro di sé.
La seconda cosa.
I manifesti funebri che antepongono al nome del defunto titoli come “prof.”, “ing.”, “dott.”.
Di fronte alla morte, simili titoli appaiono ridicoli, patetici, volgari, pleonastici. Di fronte alla morte, conta solo l’essere nella sua interezza, come comunicata dal nome e dal cognome, senza orpelli di sorta. I titoli limitano, rinchiudono in un ruolo, asserviscono a una funzione, rinserrano in un compito. La morte se ne frega di titoli e apposizioni. La morte pretende l’assoluto. Perciò è bene presentarsi al suo cospetto in maniera assoluta. Senza infingimenti. E senza titoli.