Potremmo definirlo il potere dell’aneddoto. Lo abbiamo visto all’opera durante la recente pandemia di Covid-19, quando abbiamo sentito No-vax e persone comuni affermare con convinzione: «Un mio amico/parente/conoscente si è vaccinato e la settimana dopo si è sentito male. Per questo non mi sono vaccinato». Lo stesso argomento è stato utilizzato in chiave negativa: «Tanti miei amici non si sono vaccinati contro il Covid-19 e stanno benissimo. Perché, dunque, vaccinarsi?».
Sebbene, da un punto di vista epidemiologico, la percentuale di coloro che hanno avuto una reazione avversa alla somministrazione del vaccino sia minima, testimonianze come quelle descritte e fatti di cronaca sensazionalmente riportati dai media hanno diffuso la percezione che gli effetti indesiderati dei vaccini siano stati molto più numerosi e letali di quanto non siano stati in realtà. Tutto questo grazie al potere dell’aneddoto.
Pensiamoci: abbiamo intenzione di andare a vedere l’ultimo film di Paolo Sorrentino, quando il nostro più caro amico ci dice di averlo visto e di esserne stato deluso. Quante probabilità ci sono che la sua opinione condizionerà le nostre scelte? Ugualmente, il consiglio dell’amico che ha cenato nel locale di recente apertura, “spendendo poco e mangiando bene” è probabile che sarà decisivo nella scelta del ristorante dove pranzeremo prossimamente con moglie e figli. Certo, potremmo leggere decine di recensioni positive o negative su un film o un ristorante, ma è probabile che la testimonianza dell’amico o del parente abbia un’influenza più vivida su di noi.
Talvolta, questo tipo di ragionamento si traduce in un vero e proprio pregiudizio negativo, come nell’esempio seguente:
Sono stato a Genova. Non ti consiglio di andarci. Sono stato quasi investito da un’auto. I genovesi proprio non sanno guidare.
In questo caso, la testimonianza di un singolo individuo, a noi noto, pretende di generalizzare un’esperienza, traendo da essa un giudizio negativo nei confronti dell’insieme dei genovesi da condividere, ovviamente, con tutti quelli che vogliono andare a Genova.
Rimanendo in tema sanitario, a tutti è capitato di avere a che fare con individui che affermano con convinzione: «Mio nonno fumava due pacchetti di sigarette al giorno ed è vissuto fino a ottantanove anni. E poi dicono che fumare fa male!». Oppure: abbiamo un problema di salute e dobbiamo consultare uno specialista. Che cosa facciamo? Chiediamo a parenti e amici e ci rivolgiamo al medico con il quale Teresa “si è trovata bene” o Antonio ha risolto il suo disturbo.
Si tratta di ragionamenti fallaci che pretendono di istituire facili generalizzazioni o norme comuni di condotta a partire da singole esperienze e sporadiche testimonianze, il cui unico merito è quello di vedere protagoniste persone che conosciamo in maniera diretta o indiretta. Il fatto che il nostro amico Giuseppe sia in buona salute senza essersi mai vaccinato non costituisce affatto una prova contro l’utilità dei vaccini. Il singolo aneddoto non regge il confronto con gli esiti della ricerca scientifica, che si basa su studi epidemiologici e clinici condotti su migliaia di soggetti. Ugualmente, il fatto che mio nonno sia vissuto fino alla soglia dei novant’anni pur essendo un accanito fumatore non significa che fumare non faccia male, come dimostrano migliaia di evidenze empiriche di segno contrario. Insomma, come recita un noto adagio americano, the plural of anecdote is not data (“il plurale di aneddoto non è dati”). Non basta mettere insieme una serie di racconti e storie di amici e parenti per giungere alla verità su un determinato fenomeno. Un solo dato non può fondare una teoria.
Eppure, la “fallacia dell’aneddoto” o “dell’evidenza aneddotica” – la fallacia consistente, appunto, nel sostenere la verità di una teoria utilizzando un aneddoto a conferma – è alla base, come abbiamo visto, di tanti discorsi della vita quotidiana e si insinua in tanti nostri ragionamenti che partono da esperienze personali fino a divenire luogo comune dato per scontato. Si può dire che tutti noi viviamo di aneddoti e di generalizzazioni di esperienze aneddotiche. Tutti noi presumiamo che la nostra esperienza personale sia rappresentativa di ciò che accade a tantissimi individui come noi. È come se agisse una sorta di egocentrismo cognitivo in virtù del quale ci riteniamo al centro del mondo. In un certo senso, è più forte di noi. Non riusciamo a farne a meno.
Così, è un luogo comune adoperare le proprie esperienze personali per dimostrare un assunto, ma le esperienze personali non dimostrano alcunché. Posso dire di aver visto un UFO, ma il fatto che lo abbia visto non può essere adoperato per dimostrare l’esistenza degli UFO.
Ma se le evidenze aneddotiche non consentono di conoscere oggettivamente ciò che accade nel mondo perché tendiamo a confidare così tanto in esse? Perché la fallacia dell’“È vero perché è capitato a me/a un mio amico” è così dilagante nei nostri ragionamenti e nelle nostre conversazioni di ogni giorno.
Per una serie di ragioni. La prima è che l’aneddoto ci fornisce informazioni in forma narrativa e personale e molte ricerche hanno dimostrato in maniera significativa che le persone sono maggiormente persuase dalle storie che da numeri e statistiche. Un caro amico che gode di buona salute e che ci riferisce di aver sperimentato forti effetti avversi dopo una vaccinazione avrà sulla nostra mente un impatto maggiore di un insieme di dati che dimostrano che gli effetti avversi riguardano un numero limitato di individui e sono, per lo più, trascurabili. La testimonianza calda e personale dell’amico risulterà più persuasiva delle informazioni fredde e distanti offerte dai numeri (Kahneman, 2013). La ricerca scientifica ha dimostrato che ciò avviene anche quando si tratta di prendere decisioni importanti per il proprio futuro scolastico. Borgida e Nisbett (1977), ad esempio, hanno rilevato che la scelta di quale corso di studi intraprendere è più influenzata da raccomandazioni aneddotiche ricevute da altri studenti che da statistiche informative.
A ciò, possiamo aggiungere l’azione di un altro tipo di fallacia, individuata dal filosofo Bertrand Russell (1872-1970), denominata “Induzione popolare”. In sintesi, le persone tendono a compiere generalizzazioni spontanee a partire da pochi esempi occasionali soprattutto se questi posseggono una forte “carica emotiva”. Ad esempio, tenderanno a valutare maggiore il rischio che un evento nefasto possa accadere se questo stimola maggiori reazioni emotive. In altre parole, la valutazione del rischio si basa spesso più sull’impatto psicologico ed emozionale dello stesso che su numeri obiettivi (Piattelli Palmarini, 1993).
Un’altra ragione per cui la “fallacia dell’aneddoto” si introduce così subdolamente nei nostri ragionamenti sta nel fatto che questi si basano spesso sulla cosiddetta “euristica della disponibilità”, ossia sul fatto che, nelle decisioni, tendiamo a dare maggiore importanza ai fatti o eventi che più facilmente richiamiamo alla mente. Ad esempio, se siamo invitati a stimare la probabilità di essere feriti in un incidente stradale, tenderemo a giudicare alta tale probabilità se un parente o amico è rimasto vittima recentemente di un incidente stradale. Oppure: se siamo invitati a stimare la probabilità di rimanere vittime di un incidente aereo rispetto a un incidente automobilismo, tendiamo a giudicare la prima superiore alla seconda, contro ogni statistica esistente, per il semplice fatto che le notizie di incidenti aerei hanno maggiore visibilità di quelle di incidenti automobilistici e, quindi, sono più facilmente richiamate alla memoria (Calemi, Paolini Paoletti, 2014, pp. 57-58). Allo stesso modo, le valutazioni di una persona cara su un determinato fenomeno saranno più facilmente ricordate rispetto a quelle fornite freddamente dal telegiornale della sera. È il prezzo, in un certo senso, che paghiamo per il fatto di essere umani.
Gli aneddoti sono dotati anche di una maggiore vividezza rispetto ad altri tipi di informazioni e le persone tendono ad attribuire una maggiore attendibilità o verosimiglianza a informazioni concrete, salienti, personalmente rilevanti o facilmente percepibili rispetto a informazioni astratte, impersonali, espresse in forma matematica o statistica o riguardanti fatti distanti da noi. E questo anche se le informazioni astratte contengono un valore di verità superiore a quelle delle informazioni vivide. Così, se, entrando in un negozio, “sperimentiamo” che in esso sono praticati sconti superiori alla media, questa informazione avrà su di noi un impatto sicuramente maggiore che se acquisiamo la medesima informazione da un conoscente. Allo stesso modo, un aneddoto ci appare molto più vivido di un complesso insieme di dati statistici: se a un nostro amico capita di essere derubato in una determinata area della nostra città, questa informazione avrà un impatto sul nostro sistema di pensiero molto maggiore di un freddo complesso di numeri che rappresenta statisticamente i tassi di criminalità presenti in quell’area (Michal, Zhong, Shah, 2021).
In conclusione, la “fallacia dell’aneddoto” si dimostra particolarmente pericolosa. Essa ci induce a credere nella verità di alcune informazioni solo perché sono rappresentate dalla nostra mente in maniera narrativa, immediatamente disponibile e vivida. In particolare, è alto il rischio di sottovalutare la portata di alcune informazioni rilevanti a vantaggio di informazioni di importanza secondaria, il cui unico merito è di apparire più “calde”. L’implicazione più preoccupante dell’aneddoto come criterio di verità è che alcuni tipi di informazioni, per quanto preziose, eserciteranno un’influenza minima su di noi solo perché sono in forma non narrativa, fredda e astratta. Ciò è vero in particolare per i dati statistici, certamente privi del fascino di una storia personale, ma dotati spesso di un contenuto di verità maggiore.
La morale, come dicevano gli antichi, è che dobbiamo saper vagliare con attenzione informazioni ed eventi che ci coinvolgono in prima persona e imparare a diffidare dei loro contenuti. Non sempre ciò che ci colpisce di più è più vero. Non sempre un aneddoto è più aderente alla realtà di un grafico statistico. Anche se la tentazione di generalizzare affrettatamente a partire da un episodio accaduto a noi o a qualcuno che conosciamo è grandissima e può, talvolta, contribuire a generare pregiudizi e stereotipi molto vischiosi, come ci insegna l’aneddoto sui genovesi citato in precedenza.
Riferimenti
Borgida, E., Nisbett, R. E., 1977, “The differential impact of abstract vs. concrete information on decisions”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 7, n. 3, pp. 258–271.
Calemi, F. F., Paolini Paoletti, M., 2014, Cattive argomentazioni: come riconoscerle, Carocci, Roma.
Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.
Michal, A. L., Zhong, Y., Shah, P., 2021, “When and why do people act on flawed science? Effects of anecdotes and prior beliefs on evidence‑based decision‑making”, Cognitive Research: Principles and Implications, vol. 6, n. 1.
Piattelli Palmarini, M., 1993, L’illusione di sapere. Mondadori, Milano.