Si sa che conoscere le lingue è importante. Essere in grado di parlare una lingua (o più lingue) diversa dalla propria consente di avere accesso a livelli di conoscenza, opportunità di socializzazione, di viaggio, di lavoro, perfino sentimentali, indubbiamente superiori rispetto a chi padroneggia solo la lingua madre.
Parlare lingue straniere significa avere il privilegio di incontrare culture altre, persone altre, modi di pensare altri in rapporto diretto, senza traduttori o interpreti o altri mediatori.
Significa avere un vantaggio competitivo, ricevere un dono esistenziale, acquisire un utile da reinvestire in tanti guadagni successivi.
Spesso significa anche salvare la propria vita o quella di altri.
Non sto esagerando. Lo testimonia un passaggio di un libro del grande scrittore bulgaro naturalizzato britannico, e di lingua tedesca, Elias Canetti (1905 – 1994), il quale così ricorda un episodio della sua vita:
Delle lingue si discuteva spesso, solo nella nostra città si parlavano sette o otto lingue diverse e tutti capivano qualcosa di ciascuna, soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide. Ognuno enumerava le lingue che conosceva, era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella degli altri.
… una volta il nonno di mia madre, mentre era a dormire in coperta [su un battello del Danubio], aveva udito due uomini che parlottando tra loro in greco, stavano progettando un omicidio. Non appena il battello si fosse avvicinato alla prossima città, avevano in mente di assalire un mercante nella sua cabina, ucciderlo, rubargli la sua grossa borsa piena di soldi, gettare il cadavere nel fiume attraverso l’oblò e poi, quando il battello avesse attraccato, scendere rapidamente a terra e scappare. Il mio bisnonno era andato dal capitano e gli aveva raccontato quel che aveva udito in greco. Il mercante fu messo in guardia, un uomo dell’equipaggio si nascose segretamente nella sua cabina, altri ancora vennero appostati nei dintorni, e quando i due delinquenti arrivarono per compiere la loro impresa, subito furono agguantati. Giunti al porto, dove volevano svignarsela con il bottino, vennero invece consegnati in catene nelle mani della polizia. Questo, per esempio, era potuto succedere perché il bisnonno capiva il greco, ma di storie edificanti che riguardavano le lingue ce n’erano molte altre (Elias Canetti, 2003, La lingua salvata, Adelphi, Milano, p. 46).
Conoscere lingue diverse dalla nostra vuol dire, dunque, anche riuscire a penetrare nella vita intima di chi ci è estraneo, portare alla luce i suoi segreti più reconditi, al limite, come nel caso citato da Canetti, rivelare le intenzioni malvage di chi crede che gli altri non lo capiscano perché stranieri.
A volte, la lingua può essere un grimaldello verso la salvezza, una luce nel buio, un’arma di difesa. Ciò vale anche per le cosiddette “lingue morte”, codici cifrati verso dimensioni ormai passate, ma sempre vive e attuali, soprattutto diverse dalla nostra, e di cui dovremmo apprezzare soprattutto la alterità.
Tutto questo mentre imperversa la cancel culture e il pericolo che tutto ciò che è altro perché appartenente ad altre culture – del passato come del presente – debba essere rimosso solo perché non in linea con le idee di alcuni contemporanei.
Penso che l’aspetto più importante dell’apprendimento delle lingue oggi debba essere non l’utilità commerciale o strumentale, ma la loro capacità di proiettarci in dimensioni diverse dalla nostra in cui possiamo perderci, almeno per un po’, e dimenticare il ruolo a cui ci obbliga la nostra lingua madre.