“Precario”: “Incerto”, “instabile”, dal latino: precarius “ottenuto con preghiere”, “per grazia” (da prex “preghiera”).
L’etimologia tradisce immediatamente che si è precari perché ciò che si può ottenere è raggiungibile solo pregando altri. Chi prega lo fa perché ha bisogno dell’altro per avere ciò che desidera. Allo stesso modo, chi è precario ha bisogno di rivolgersi umilmente, servilmente, ad altri per avere un lavoro, per guadagnarsi da vivere o per altri motivi.
Se pensiamo che oggi la precarietà è la cifra della nostra esistenza liquida e incerta – incerta lavorativamente, sentimentalmente, esistenzialmente, politicamente, economicamente – è agevole trarre la conclusione che, nella nostra epoca apparentemente dissacrata, distante da ogni divinità e gesto di supplica, siamo tutti fedeli oranti che preghiamo per un modicum di stabilità, umiliandoci e implorando il potente di turno – o almeno chi ha più potere di noi – per una concessione che ci permetta di vivere nell’illusione di un’àncora esistenziale, per quanto effimera.
E così preghiamo, supplichiamo. E non solo per il lavoro. Supplichiamo il politico di raccomandarci per quella multa che non vogliamo pagare. Ci rivolgiamo umilmente al(la) nostro(a) partner del momento affinché rimanga sempre al nostro fianco “finché morte non ci separi”. Uniamo le mani e piangiamo per chiedere giustizia in seguito a un torto (reale o immaginario) subito. Ci inginocchiamo di fronte alla nostra attrice preferita perché regali un sorriso rivolto unicamente a noi. Imploriamo la nostra diva del porno di poter baciare le sue escrescenze carnose. Chiediamo all’influencer preferito di spendere una parola per noi. Invochiamo il nostro brand prediletto affinché lo indossiamo nella convinzione che essere marchiati da quello ci garantirà l’eternità della nostra condizione di consumatori.
Insomma, precari preghiamo. Spesso anticipando la preghiera con un altro termine di origine religiosa: “Mi perdoni, vorrei chiederle…”. Chi l’avrebbe detto che il vocabolo simbolo della nostra epoca instabile e irreligiosa affonda le proprie radici in una dimensione che a noi contemporanei sembra estranea e inattuale: quella religiosa? A volte è proprio vero che gli estremi – o almeno i distanti – si toccano.
O, forse, semplicemente, la preghiera è talmente connaturata a noi umani che, perfino in un tempo secolarizzato come il nostro, abbiamo bisogno di ripetere i medesimi gesti di umiliazione che ci caratterizzano da secoli, sebbene travestendoli in una nuova forma nominale: quella del precariato.