Sparita la religione, tramontata la politica, fuori moda cocaina ed eroina, qual è il nuovo oppio dei popoli? La risposta è facile perché la nuova droga ci viene ammannita ogni giorno, più volte al giorno, in modi variabili.
Il cibo è il nuovo oppio dei popoli. Ma non il cibo di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Si tratta del culto del cibo, la nuova forma di venerazione a cui tutti sembriamo cedere in mancanza di un’idea forte, un’ideologia, una grande narrazione in grado di conferire senso alle nostre vite.
Il culto del cibo ha i suoi officianti (gli chef) convinti di detenere la verità assoluta e ritenuti infallibili come papi, anzi più dei papi. I pontefici, per dichiararsi infallibili, hanno dovuto inventare un dogma apposito. Gli chef non ne hanno bisogno perché dalle loro parole i fedeli pendono come vittime sacrificali. D’altronde, gli ultimi dogmi indiscutibili sono proprio quelli gelosamente custoditi dagli chef, che nessuno osa mettere in discussione anche se viviamo nell’epoca in cui tutto viene messo in discussione e niente è più sacro. Chi oserebbe contestare, ad esempio, che nella carbonara non va la pancetta? O che sulle vongole non va il formaggio? Provate a farlo. Vi ritroverete davanti sguardi atterriti e increduli come un tempo davanti a un miscredente che dichiarasse apertamente di essere un eretico.
Del resto, dinanzi al verbo degli chef scolpito nei loro immancabili ricettari – sorta di comandamenti divini da rispettare e seguire alla lettera, pena la scomunica della comunità a cui si appartiene – l’unico atteggiamento corretto possibile è l’obbedienza supina, se non si vuole passare per profanatori e devianti, e, come tali, essere respinti dalla società dei benpensanti.
Gli chef-dei dispongono naturalmente dei loro luoghi di culto, i ristoranti, dove le pietanze hanno lo stesso valore sacro dell’eucarestia e le recensioni hanno preso il posto delle lodi al signore o delle lamentazioni. Questi luoghi sono spesso addobbati con paramenti sacri di vario genere e sono costruiti in modo da creare una atmosfera cultuale che incute genuflessione e meraviglia.
Il culto del cibo prevede ovviamente rituali e liturgie speciali: il modo di disporre piatti e posate, di presentare il cibo e perfino di mangiarlo. Tutto in ossequioso contegno e secondo inviolabili principi di bon-ton, il cui sacrilegio garantirebbe lo stigma indelebile dello zoticone.
Infine, come detto, il culto del cibo ha anche i suoi testi sacri, i ricettari, sempre più prescrittivi e dotati di sacralità, con tanto di esegeti professionisti (su basi locali, regionali, nazionali e internazionali) sempre pronti ad ammannire le loro creazioni su piatti serviti su un letto di rucola.
Al nuovo culto non sappiamo rinunciare; né osiamo discutere la sua sacralità. È probabile che ci accompagnerà fino all’estrema unzione: all’ultimo spaghetti al pomodorino su cui renderemo l’anima satolli e narcotizzati.