Massimo Galli è il direttore/responsabile del reparto malattie infettive 3 dell’Ospedale Sacco di Milano, che dispone, come recita il sito della struttura, di «24 posti letto per ricovero ordinario, 7 posti letto per ricovero giornaliero, 5 ambulatori, un laboratorio per la diagnostica avanzata in patologia infettiva e tropicale».
Da qualche mese, in virtù delle sue competenze virologiche, Massimo Galli è un volto molto noto ai telespettatori italiani: le sue conoscenze, così rilevanti in epoca pandemica, sono richiestissime; le sue parole, per quanto ripetitive, ricercate come sorgenti di saggezza; i suoi vaticini, spesso viranti sul disastroso, ascoltati con timore oracolare.
Naturalmente, dal momento che l’argomento pandemia è di per sé complesso e la complessità esorta una pluralità di opinioni, le affermazioni di Galli sono commentate, elogiate, rilanciate, distorte, contestate o smentite da interlocutori – anch’essi televisivi – di varia provenienza: giornalisti, conduttori, politici, amministratori, colleghi, accademici e gente di spettacolo. I confronti sono spesso accesi e non tutti sono disposti ad accogliere catechisticamente le parole del virologo, il quale battezza invariabilmente con termini come “sciocchezze” o “non è vero” le tesi dei suoi contestatori o bacchetta con inflessibile gravitas chi osa dissentire dal suo pensiero.
Due sono le principali strategie retoriche adoperate da Galli per mettere a tacere chi la pensa diversamente da lui.
La prima è riassumibile nella frase: “La sua è una tesi politica”. Il virologo, in altre parole, contrappone la scientificità dei suoi dati alla opinabilità di parte delle tesi dei suoi oppositori. Peccato che il professore sia, in genere, davvero parco di dati e preferisca zittire i suoi interlocutori invocando a ogni piè sospinto le superiori conoscenze da lui possedute e l’indubitabile esperienza clinica che gli consentono di troneggiare apoditticamente su tutti gli altri. Questi, spesso, non possono che prendere atto e abbozzare.
La seconda strategia – su cui mi piacerebbe soffermarmi di più – è riassumibile nella “metafora del reparto”. In breve, a chi contesta le sue tesi/affermazioni/riflessioni/prescrizioni/profezie, Massimo Galli oppone un sistematico: “Venga a dare un’occhiata al mio reparto”. Il reparto malattie infettive 3 dell’Ospedale Sacco di Milano diviene così la prova provata della verità delle sue parole, il litmus test della sua infallibilità clinica, la versione laica dell’ex cathedra papale. Il senso manifesto della frase è che, al di là di ogni chiacchiera, è il contatto quotidiano con i pazienti affetti dal virus a fornire i “dati” e l’esperienza per parlare di Covid-19 con cognizione di causa. Il senso latente è che quello che accade al reparto malattie infettive 3 dell’Ospedale Sacco di Milano è rappresentativo e significativo di tutto ciò che di virale accade in Italia secondo la vecchia figura retorica del pars pro toto.
Ed è qui l’errore di Massimo Galli: quello di pensare che una struttura con 24 posti letto per ricovero ordinario e 7 posti letto per ricovero giornaliero possa restituire la verità sull’andamento del Covid-19 nell’intera penisola.
L’errore in realtà è doppio: da un lato i (pochi) pazienti che transitano per il Sacco e incontrano il prof. Galli non sono rappresentativi di tutti coloro che sono contagiati dal virus; dall’altro, coloro che vengono ricoverati al reparto malattie infettive 3 sono verosimilmente i casi più gravi e non possono essere rappresentativi della maggior parte degli infetti che sono asintomatici o paucisintomatici.
Si tratta di quella fallacia della mente che i logici chiamano “euristica della disponibilità”, termine con il quale si intende il fatto che le persone formulano giudizi sulla probabilità che si realizzi un determinato evento, basandosi sulla facilità con cui vengono alla mente esempi del verificarsi di quell’evento. Un esempio classico è dato dal modo in cui molte persone ragionano intorno alla probabilità di vittoria di un partito in occasione di una elezione. Il fatto di conoscere soprattutto persone che hanno un determinato orientamento politico favorisce l’opinione che il partito rappresentato da quell’orientamento avrà la meglio. Ma ciò può essere brutalmente smentito dalla realtà perché il giudizio di partenza è condizionato dalla ristrettezza della cerchia su cui è formulato. Allo stesso modo, è probabile che avere a che fare con pazienti affetti da forme gravi del virus – come avviene ai virologi clinici – favorisca una visione più pessimistica e letale della sua pericolosità. Il “reparto” diventa così una camera di distorsione della realtà che stimola la genesi di previsioni catastrofiche sul futuro, nota che accomuna molti professionisti della medicina clinica al di là delle differenze di opinione esistenti fra loro.
La metafora del reparto non è un argomento conclusivo per avere la meglio in un dibattito, come vorrebbe il professor Galli, ma una delle tante forme assunte da una fallacia nota nella quale – Galli docet – possono cadere anche i grandi medici.
Sui bias della pandemia rimando a tre miei post precedenti: qui, qui e qui.