Una delle conclusioni più interessanti della psicologia della percezione è che la percezione che abbiamo del nostro aspetto è un tipo di memoria.
È il ricordo non solo di quando vi siete visti allo specchio l’ultima volta, ma anche di tutte le altre volte in cui lo avete fatto o avete guardato una vostra foto. In altre parole, quando pensate a voi stessi quasi certamente avete in mente un’immagine composita, per esempio, del vostro viso. Il problema è che questo ricordo patchwork delle vostre sembianze non sarà mai veritiero, perché non potrà mai esistere nella realtà. In questo preciso momento non potete avere lo stesso aspetto che avete avuto finora. Il fatto stesso di invecchiare lo rende impossibile, per non parlare delle imperfezioni quotidiane o dei cambiamenti di stile. Questo ci aiuta a capire il motivo per cui, davanti ad alcune foto, reagiamo esclamando: “Qui sono venuto/a male!”. Spesso giudichiamo brutta una foto solo perché contrasta con l’idea che abbiamo del nostro aspetto, ossia contrasta con il ricordo che abbiamo di noi stessi (Shaw, J., 2017, L’illusione della memoria, Ponte alle Grazie, Milano, pp. 218-219).
È come se, nel tempo, distorcessimo la percezione di noi stessi; percezione che viene costruita assemblando, forse per vanità, il “materiale” che ci fa apparire migliori. Questa costruzione confluisce in un ricordo positivo delle nostre fattezze, il cui scarto dalla realtà avvertiamo con stupore quando ci osserviamo nelle foto che sono scattate di noi.
Nel corso della nostra esistenza, ci piace edificare un’immagine sostanzialmente positiva di noi stessi: ricordiamo quella volta che ci siamo guardati allo specchio e siamo rimasti soddisfatti di quello che abbiamo visto; quella volta che l’ombra sul viso ci ha resi così misteriosi e intriganti; quella volta che, da giovani, abbiamo ostentato la frangetta di capelli che ci faceva sembrare così attraenti. Tutti questi ricordi compongono l’immagine positiva di noi con la quale, inevitabilmente, confrontiamo la resa che emerge dalle foto che gli altri ci scattano. Il confronto ci restituisce scarti spesso impietosi che, però, possiamo colmare semplicemente osservando che “siamo venuti male”. Forse non è vero, però, in questo modo, la nostra autostima ne esce intatta e possiamo sempre biasimare il cattivo fotografo. A tutto vantaggio della nostra vanità.