Varie sono le angolazioni da cui è possibile leggere il libro di Claudio Gavillucci, L’uomo nero. La verità di un arbitro scomodo, edito da Chiarelettere Editore (2020): come resoconto rancoroso e risentito delle vicende umane e professionali di un ex arbitro di serie A, estromesso dall’organizzazione elitaria di cui faceva parte e di cui era orgoglioso di far parte; come testimonianza obiettiva sulla condizione degli arbitri nella società contemporanea e sugli aspetti sociologici, organizzativi e professionali di una categoria spesso percepita secondo etichette sbrigative e luoghi comuni, anche in virtù della sua scarsa inclinazione ad aprirsi all’esterno; come incursione a gamba tesa nella stanza dei bottoni degli arbitri; come esposizione di strategie e segreti dei vertici della classe arbitrale italiana.
Certamente, da un punto di vista sociologico, la testimonianza di Claudio Gavillucci deve essere presa con le molle. Come sa chi frequenta, ad esempio, la sociologia della religione, le testimonianze dei “fuoriusciti” sono spesso viziate da risentimento e acredine, nonché condizionate dal timore di eventuali ripercussioni o vendette.
Mettendo da parte questo aspetto, tuttavia, credo che il libro dell’arbitro di Latina sia interessante perché getta luce su aspetti, preoccupazioni e condizionamenti della professione arbitrale poco conosciuti. Verso le ultime pagine, ad esempio, Gavillucci osserva: «I tifosi hanno un comune denominatore, ossia la convinzione che la propria squadra venga penalizzata dall’arbitro. Non importa se tifi Juve, Inter, Napoli o Roma: quando c’è in ballo la fede calcistica, la tua squadra del cuore non ha mai ricevuto un aiutino» (p. 117). Non tutti però sanno che «l’arbitro viene pagato soltanto se calca il terreno di gioco e commettere errori può mettere a rischio i guadagni e in alcuni casi la carriera» (p. 118). L’idea che gli arbitri siano facilmente corrompibili o al soldo delle grandi squadre è smentita dal fatto che è interesse dell’arbitro non sbagliare perché sbagliare vuol dire non essere chiamato più ad arbitrare negli incontri successivi o addirittura essere estromesso dalla magica ventina che arbitra in Serie A. E, da quello che afferma Gavillucci, gli errori sono valutati con estrema severità.
Certo, continua l’arbitro di Latina,
pensare che l’arbitro si faccia condizionare da giornali, tv, radio o siti è sbagliato, ma è da ingenui credere che non conosca il peso e le conseguenze delle sue valutazioni. Le squadre con più seguito sono quelle di cui si parla e si scrive di più, e inevitabilmente una decisione errata che ha un forte risalto mediatico rischia di provocare un danno maggiore al direttore di gara. L’idea che un errore possa scatenare una guerra mediatica in certi momenti può rendere pesante il fischietto, tuttavia imparare a non subire queste pressioni fa parte del mestiere. […] Uno svarione non è uguale a un altro, un rigore sbagliato contro una squadra che lotta a metà classifica non solleva le stesse polemiche di una cantonata in un match dove la posta in palio è più grande. Non c’è paragone e l’effetto non è solo mediatico ma ha risvolti anche sulle prospettive future (pp. 118-119).
Questo significa che alcuni errori pesano più di altri, ma in linea di principio ogni errore può compromettere la carriera dell’arbitro di Serie A. Ripeto: interesse professionale dell’arbitro è non sbagliare.
Altra “rivelazione” interessante è che l’arbitro teme il VAR perché, ogni volta che viene chiamato a verificare con l’aiuto della tecnologia una sua decisione o a ricorrere alla macchina per valutare un’azione sfuggita alla sua attenzione, ciò viene considerato un errore e quindi una pecca sul campo che può costare qualcosa sul giudizio finale, anche solo un decimo di punto, sufficiente a condannarlo all’ultimo posto della relativa classifica. Questo può significare anche l’abbandono della Serie A (pp. 129-133).
Il quadro che emerge da L’uomo nero. La verità di un arbitro scomodo è quello di una categoria ossessionata dalla perfezione e dall’errore. Il luogo comune, invece, è che l’arbitro sia facilmente addomesticabile o assoggettabile alla bustarella di turno. Grazie a Gavilluci sappiamo oggi che gli arbitri non sono una categoria di “venduti” come pretendono gli slogan più beceri su di essi. Agli arbitri non conviene vendersi. I rischi sono troppi. La posta in gioco troppo alta. E il giudizio su di loro avviene in decimi di punteggio…
Per una analisi approfondita dei condizionamenti psicosociali di cui sono vittime arbitri, tifosi e calciatori, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, edito da Meltemi.