“Fantascienza”, “cantautore”, “facile”. Che cosa hanno in comune queste tre parole? Il fatto di essere state, in un qualche momento della loro esistenza, dei neologismi verso cui i parlanti hanno avuto sospetto, diffidenza, fastidio. La prima risale al 1952; la seconda al 1960; la terza molto più indietro (XIV secolo), ma per secoli gli abitanti della nostra penisola hanno usato la parola “agevole” in sua vece. Oggi, le tre parole sono pronunciate da tutti senza alcun problema e fanno parte integrante del nostro vocabolario di base. In altre parole, non sono più avvertite come neologismi. Non sono più “diverse perché nuove”.
Oggi sappiamo che ogni parola di una data lingua è stata, in qualche periodo, un neologismo, cessando poi di essere percepita come tale con il tempo e l’uso. Nel Settecento, Denis Diderot osservava che
ogni parola nuova produce all’orecchio di chi l’ascolta un effetto di sorpresa e di disagio che potrà essere attenuato dal tempo, poiché la fortuna di un neologismo, anche se fortemente legata alla sua efficacia espressiva, dipende soprattutto dal reale bisogno di denominare oggetti, concetti o fenomeni non ancora conosciuti. Così, per mancanza di consuetudine, le parole nuove possono apparire inizialmente buffe o brutte. Ma l’impressione sgradevole si attenua con il passare del tempo e, nella maggior parte dei casi, ciò che poteva sembrare goffo, sorprendente o ridicolo viene progressivamente accettato e assimilato, fino a risultare indistinguibile o naturale, se non addirittura consueto.
«Le prime testimonianze di avversione risalgono all’età classica, quando i retori e i grammatici latini definirono il concetto di vitiose loqui (parlare in modo scorretto o corrotto) e i neologismi – detti verba nova (parole nuove) o verba ficta (parole escogitate in modo artificioso) – furono rifiutati come vitia che inquinavano la purezza della lingua e della cultura latine» (Giovanni Adamo, 2020, Parole nuove, Corriere della Sera, Milano).
La diffidenza nei confronti delle parole nuove è solo un esempio della più generale diffidenza nei confronti di ciò che è nuovo (misoneismo), estraneo, sconosciuto, che tanto biasimiamo – e a ragione – quando il nuovo è una persona di un altro paese, portatrice di una cultura e di valori altri. Stranamente, però, anche presso i parlanti più colti e avvertiti, la condanna del neologismo – della parola nuova, “altra” – tende a essere forte e senza esitazioni ed è spesso legittimata in termini fonetici (“Ha un brutto suono”), estetici (“È una brutta parola”), nazionalistici (“In italiano abbiamo già parole per indicare la stessa cosa”) o numerici (“Non se ne avvertiva la necessità”).
Tutte queste argomentazioni nascondono il fastidio per il nuovo venuto; fastidio che scompare, come detto, con il tempo e l’uso. Con la sua costante ripetizione, infatti, il neologismo diventa termine ordinario, comune e non è più considerato un vitiose loqui.
Rimane il fatto che, in ambito linguistico, il purismo di molti parlanti giustifica atteggiamenti di riprovazione e condanna verso il nuovo e il diverso che, in ambito sociale e culturale, sarebbero ritenuti inaccettabili. Come dire: la linguistica è uno dei pochi settori in cui, in nome del purismo, è legittimato essere “razzisti”.