Non è una autobiografia “a frammenti” di un uomo divenuto cieco a 40 anni. Non è la testimonianza di un cambiamento tragico nella vita di un accademico di successo, nato in Australia e vissuto in Inghilterra. Il dono oscuro di John M. Hull (2019, Adelphi, Milano) è un resoconto lucido, brillante, introspettivo, mai tendente all’autocommiserazione o al vittimismo, di che cosa vuol dire essere ciechi, denso di osservazioni profonde, al confine tra psicologia, antropologia e sociologia, che raramente è dato rinvenire nei testi del genere. Il titolo italiano, del resto, non rende giustizia a quello inglese – Notes on blindness – che evoca più fedelmente l’atteggiamento, tra lo speculativo e il partecipato, di un cieco che offre ai vedenti rapide, ma efficaci, incursioni in un mondo in cui essi non vorrebbero mai trovarsi e che, tuttavia, coinvolge molti nostri simili, suscitando spesso incomprensioni, equivoci, fraintendimenti.
Dalla ricca congerie di osservazioni presenti nel libro di Hull, mi piace soffermarmi su tre in particolare, sia per il loro carattere sociologico, sia perché alludono a tre degli equivoci più grossolani che nascono nel rapporto tra ciechi e vedenti.
La prima osservazione riguarda il fatto che chi diventa cieco ha a che fare, sempre e comunque, con un mondo di metafore visive a cui né lui (o lei) né i suoi interlocutori vedenti potrebbero mai rinunciare e che testimoniano quanto radicalmente la vista determini il nostro modo di rapportarci ai nostri simili. Il paradosso è che nemmeno chi è cieco può evitare di dire e di sentirsi dire: «Allora ci vediamo». Ciò introduce un problema di linguaggio della cecità su cui Hull ci offre riflessioni non banali.
«Allora ci vediamo».
«Che bello vederti».
«Capisco come la vedi».
Quando uso espressioni come queste, alcuni dei miei amici vedenti rimangono sorpresi. «Non intendi in senso letterale, vero, John?» mi dicono prendendomi un po’ in giro. Allora spiego che se dico che mi fa piacere vederli, intendo che mi fa piacere incontrarli, mi fa piacere stare con loro, godermi la loro compagnia. Spiego che è sicuramente quello che chiunque, vedente o non vedente, intende con quell’espressione. Allo stesso modo, quando dico che capisco «come la vedono», intendo dire che li capisco. Quello che dicono ha senso per me. Ed è ciò che intende chiunque usi quell’espressione, dal momento che il significato di per sé è invisibile.
Quando sei cieco ti rendi conto di quanta parte del linguaggio dipenda da immagini visive. È naturale che anche le persone vedenti se ne accorgano nitidamente quando parlano con una persona cieca. «Qual è il tuo punto di vista?», «Hai osservazioni da fare?», «Non capisco il modo in cui vedi la questione», «Guarda qui il mio amico!», «Ho guardato dappertutto per trovarlo», «Vedrò se posso esserti d’aiuto».
In espressioni come queste, atteggiamenti, intenzioni, richieste e riferimenti alla conoscenza e alla comprensione sono suggeriti dall’uso di metafore visive. C’è un legame intimo tra il vedere e il sapere. La cecità conduce all’ignoranza.
Le persone disabili dovrebbero astenerci dall’utilizzare quelle espressioni che fanno un uso metaforico della disabilità da cui sono affette? Sarebbe assurdo. Imporrebbe una nuova disabilità – linguistica – a persone che ne hanno già una. Se qualcuno su una sedia rotelle dice di essere «in corsa» come candidato alle elezioni, non mi metto certo ad attirare l’attenzione sulla sua disabilità dicendo: «Ah, intendi dire in corsa sulla sedia a rotelle». Se un mio amico mi dice che l’altro giorno su High Street si è «imbattuto» in tizio o caio, non mi metto a sghignazzare chiedendogli: «E vi siete fatti male?».
È vero, comunque, che dietro questi piccoli nervosismi e queste incomprensioni tra ciechi e vedenti si nasconde un problema autentico. La struttura stessa delle nostre conversazioni ordinarie, quotidiane, presuppone un mondo vedente. Lo si nota facilmente confrontando le conversazioni alla radio con quelle in televisione. Quando un vedente attira l’attenzione su una piccola stranezza nell’uso di una metafora visiva da parte di una persona cieca, quindi, sotto si nasconde uno spostamento sottile nell’intero carattere della comunicazione tra il vedente e il cieco. Esiste un linguaggio della cecità (pp. 35-36).
La seconda osservazione riguarda la tendenza dei “normali” a ridurre il disabile, anche se adulto, a un bambino, a interpretare la sua condotta alla stregua di quella di un “rimbambito” (termine che significa appunto “persona tornata bambino”), ad assimilare i suoi comportamenti goffi e sgraziati a quelli di un infante. Questo processo di “rimbambimento” si verifica con una certa frequenza nei rapporti tra vedenti e non vedenti e ha come conseguenza una forte umiliazione del disabile che si ritrova privo non solo di una facoltà fisica, intellettiva o sensoriale, ma anche, come dice Hull, di parte della sua umanità.
Camminavo in centro, su Navigation Street. Qualcuno mi ha offerto un pacchetto di mentine. «Grazie» ho detto con voce squillante, accettando le caramelle con un sorriso.
«Figurati» ha risposto il mio benefattore. «Avevo comunque deciso di darle al primo bambino che avrei incontrato».
A una cena ufficiale, la portata principale erano cosce di pollo. Ho chiesto alla mia vicina di chiamare il cameriere per disossarmelo; è la situazione meno imbarazzante in queste situazioni. La vicina ha detto che non era necessario; avrebbe potuto pulire lei il pollo. Così ha fatto, volentieri e con abilità, e mi ha restituito il piatto commentando: «Proprio l’altro giorno ho fatto lo stesso per un bambino handicappato».
Ero con un amico in una casa che non mi era familiare e il gabinetto era traboccato durante la notte. La moquette del bagno era fradicia. L’ho saputo solo la mattina presto, quando mi sono alzato per andare in bagno. Il mio amico si è svegliato subito e mi ha chiamato: «John, non andare in bagno. C’è stato un incidente».
Sono tornato indietro, e mi ha spiegato il problema. Ero seduto pensieroso sul bordo del letto, gli ho detto: «Dimmi un po’, sei rimasto sdraiato nel dormiveglia tutta notte, aspettando che mi alzassi e andassi in bagno, per fermarmi in tempo? Non ti piaceva l’idea di svegliarmi prima per dirmelo? Sapevi che sarebbe stato un disastro se fossi entrato senza saperlo?».
Il mio caro vecchio amico si è messo a ridere. «Sì,» ha detto «più o meno. Non sono rimasto sveglio. Sono andato a dormire con il pensiero che avrei dovuto svegliarmi nel momento in cui scendevi dal letto». Ha aggiunto, premuroso ma con una risatina: «È come avere di nuovo un bambino».
Ero in viaggio con mia figlia di undici anni su un treno della British Rail e non riusciamo a distinguere quale biglietto fosse il suo e quale il mio. Sul suo, comprato con uno sconto famiglia, c’era scritto: «Biglietto singolo». Sul mio, comprato con lo sconto disabili, c’era scritto: «Bambino».
L’altro giorno ne ho parlato con Clive Inman, che è su una sedia a rotelle. Mi diceva che quando la gente lo vede si rivolge a lui con un tono di voce gentile, pacato, compassionevole. È una voce bonaria e paternalistica, la stessa che alcuni usano con i bambini. È anche la voce dell’incertezza, delle persone che non sanno come reagire quando incontrano un adulto che è stato «ridimensionato».
Un uomo disabile perde parte della sua virilità, parte della sua maturità e anche parte della sua umanità. Non mi piace che mi strappino via così il mio essere adulto (pp. 99-100).
La terza osservazione è relativa a un effetto che potremmo definire “terza persona”. Quando il disabile si trova a essere accompagnato da una persona “normale” in una situazione sociale, non è raro che gli altri “normali” si rivolgano all’accompagnatore per rivolgere richieste alla persona cieca quasi che questa fosse non solo priva di una facoltà sensoriale, ma pure del bene dell’intelletto. Anche in questo caso, il disabile trae dalla situazione una sensazione di umiliazione e di estraneazione che, inevitabilmente, produce effetti intensissimi di alienazione.
In chiesa, uno dei sagrestani si è avvicinato a Marilyn [la moglie], in piedi accanto a me, e le ha chiesto: «Marilyn, John desidera prendere la comunione all’altare?». Marilyn non gli ha risposto, quindi mi sono rivolto verso di lui e ho detto: «Sì, grazie, ora vado». Ho percepito un leggerissimo verso di stupore: quell’uomo gentile si era sentito a disagio perché avevo ascoltato. L’ho rassicurato che era tutto a posto, ringraziandolo per l’attenzione, e gli ho detto che mi avrebbe accompagnato Marilyn come sempre. Credo mi avesse preso per sordo. Non sarebbe stato meglio toccarmi la spalla e chiedermi se volevo andare e mi serviva aiuto? Avrei apprezzato quel gesto premuroso. Invece parlare di me, in terza persona, a qualcun altro era tutta un’altra faccenda.
Questa situazione si presenta spesso quando entro in macchina con un gruppo di altre persone. «John lo mettiamo dentro con te?», «No, lo metto davanti con te», «Ok, mettilo dentro allora». A questo punto sono intervenuto, urlando a voce molto alta: «John non viene messo da nessuna parte, grazie tante. A John si chiede se ha qualche preferenza su dove sedersi». A questa uscita, i miei amici sono scoppiati a ridere fragorosamente, per poi subito scusarsi imbarazzati.
Di recente, in una situazione simile, ho gridato: «Ehi, gente, non parlate di me come se non fossi qui». E questo, ancora una volta, ha generato scoppi di risa e un misto di scuse, espressioni di approvazione e complimenti.
Certo è molto imbarazzante quando delle persone intelligenti e attente vengono colte così, in quell’atteggiamento da «lui lo prende lo zucchero?» nei confronti di un disabile. Eppure sono tutte persone sensibili, ben consapevoli di quanto questo atteggiamento possa essere umiliante. E qui viene da chiedersi: perché lo fanno?
È così facile emarginare una persona cieca che in alcune situazioni, in effetti, è quasi impossibile non farlo (p. 106).
I vedenti spesso mi aiutano a chiamare il taxi. I miei nuovi amici non si limitano ad accompagnarmi alla macchina, ma danno anche indicazioni al tassista. Sulla strada verso il parcheggio dei taxi, la mia guida di solito domanda dove vado. Poi, quando mi ha caricato a bordo assicurandosi che io non sbatta la testa, riferisce al tassista le informazioni che le ho dato.
Il vedente si prende cura di me, mi accudisce. E questo rapporto di accudimento fa sentire lui adulto e me bambino. Se si deve caricare un bambino su un taxi, naturalmente si cerca di scoprire dove abita o dove vuole andare. Non lo si lascia a discutere con il tassista. Ci si accerta che l’autista abbia capito bene tutte le indicazioni prima di affidargli la responsabilità del bambino. Così funziona tra vedenti e ciechi (p. 133).
La disabilità non è riducibile alla sola menomazione fisica o sensoriale. Nella disabilità è presente qualcosa in più: le reazioni sociali, che determinano, in ultima analisi, il modo in cui il disabile costruirà la propria identità, si rapporterà nei confronti del mondo, vivrà la propria vita. Le metafore visive, la tendenza al “rimbambimento”, l’effetto “terza persona” sono solo alcuni dei meccanismi reattivi con cui il cieco ha a che fare nella vita di ogni giorno e che sono messi in moto anche dai vedenti più sensibili e benintenzionati. Si crea così una barriera impervia di equivoci, malintesi, mortificazioni che costituiscono l’essenza stessa della difficoltà di vivere da disabile. John Hull ne è lucidamente consapevole e la lettura del suo libro permette anche ai vedenti di esserne consapevoli. Un passo indispensabile verso una comprensione globale del mondo delle disabilità.
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