Nell’antica Roma, la prefica – ci dice il vocabolario Treccani – era una «donna pagata per far parte di cortei funebri e intonare canti di elogio del defunto, accompagnati da grida di dolore, pianti, gesti di disperazione; con lo stesso nome […] si indicano le donne che soprattutto nel passato, e ancora oggi in alcune zone dell’Italia meridionale, accompagnano i funerali con grida e manifestazioni di dolore». Il comportamento delle prefiche è ben descritto nel capitolo IV della Storia popolare degli usi funebri indo-europei (1873) di De Gubernatis. Esse si abbandonano a
un crudelissimo compianto, altre si strappano i capelli, squarcian co’ denti le bianche pezzuole ch’ ha in mano ciascuna, si graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli, ad omei, a singhiozzi gemebondi e affocati, si dissipano in larghissimo compianto. Altre si abbandonano sulla bara, altre, si gittano ginocchioni, altre, si stramazzan per terra, si rotolan sul pavimento, si spargon di polvere; altre, quasi per sommo dolor disperate, serran le pugna, strabuzzan gli occhi, stridono i denti, e con faccia oltracotata sembran minacciare il cielo stesso.
Le prefiche avevano il compito rituale di far sembrare il funerale più autentico, il dolore più acuto, la sofferenza più intensa. I loro isterismi dovevano restituire commozione, anche se spesso finivano con lo stancare. La nozione di fondo è che chi piange e si dispera con urla altissime rappresenta una pena vera e sincera. Le prefiche, dunque, dovevano conferire “verità” all’atto mortuario attraverso l’espressione parossistica del dolore. Era una recita e tutti lo sapevano, ma la recita era necessaria per dare manifestazione a un sentimento.
Non da meno si comportano le prefiche di oggi che non seguono più cortei funebri, ma affollano palcoscenici televisivi, salotti mediatici, pulpiti religiosi e radio con largo seguito per conferire “verità” alle loro opinioni politiche, sportive, religiose, cronachistiche ecc. Sembra infatti che le persone tendano a credere istintivamente a chi esprime un’opinione o avanza una richiesta urlando, stracciandosi vesti e capelli, gonfiando gli occhi per il pianto, dimenando la lingua e il corpo in maniera scomposta e convulsa. Se un politico urla al punto da diventare rosso in viso e impreca volgarmente contro migranti, mendicanti, rom e altre categorie di individui, da lui accusati di ogni male, le persone tendono a credere alle sue lamentele, geremiadi e contumelie perché – sembra pensare l’uomo della strada – “non si agiterebbe in questo modo se le cose che dice non fossero vere”. Se un opinionista tifoso inveisce con dedizione e parole latrate contro la squadra avversaria, accusandola di furti e altre ignominie, gli individui tendono a credergli perché se quello che dice non fosse vero, non si scalderebbe in quel modo. Se un leader religioso vaticina disgrazie e catastrofi future tra movimenti similepilettici e toni burrascosi, avrà maggiori probabilità di essere creduto dal gregge umano che arringa.
Abbiamo un grosso desiderio e bisogno di prefiche. Il giudizio di “verità” su cose e uomini sembra ricevere una certificazione immediata di autenticità da strepiti e capelli strappati. Chi più schiamazza, conquista più cuori e fegati. Non importa quello che dice, ma come lo dice. A tutto scapito della ragione e degli argomenti frutto di riflessione e ponderatezza. Del resto, l’emotività è da sempre più cool della posa assennata.
E allora viva le prefiche.
E attenti alle prefiche.