Quante volte abbiamo sentito questa frase dalla forte funzione ammonitoria? Essa assume innumerevoli forme: “Se tutti gettassero i rifiuti in strada, dove andremmo a finire?”. “Se tutti pagassero le tasse, il debito pubblico si estinguerebbe in pochi anni”. Forme espresse anche negativamente: “Se nessuno pagasse le tasse, la società rimarrebbe senza servizi”, “Se nessuno acquistasse il biglietto dell’autobus, il sistema dei trasporti crollerebbe”, “Se nessuno andasse a votare, ci sarebbe l’anarchia”.
Di solito queste ammonizioni sono accolte da tutti come verità apodittiche, non meritevoli di dimostrazione. Pedagogicamente, sembrano molto efficaci tanto da essere ripetute in continuazione a bambini e ragazzi, spesso in sostituzione di argomentazioni più solide. “Certo”, dice l’educatore al suo discente discolo, “se tutti spargessero le proprie caccole dappertutto come fai tu, il mondo sarebbe un porcile”. Il punto, però, è che questa argomentazione, a prima vista così sensata, si regge su un postulato semplicemente falso; anzi talmente falso da trovare spazio con difficoltà perfino nei racconti distopici come 1984 di Orwell. Nella vita, infatti, le persone non si comportano mai allo stesso modo, nemmeno se si sforzano. Anzi, non possono farlo perché sono diverse culturalmente, antropologicamente, psicologicamente, sociologicamente, biologicamente. Non accadrà semplicemente mai che “tutti spargeranno le proprie caccole in giro” o che “nessuno pagherà le tasse”. Come ci insegna la sociologia, il più grande problema che ogni società finora conosciuta si è posta fin dall’inizio è come indurre i propri membri a osservare comportamenti conformistici, essendo inclini piuttosto a condotte individuali, non necessariamente solidali, anzi talvolta asociali. Questo problema è stato avvertito anche nelle società comuniste e, come detto, in quelle uscite dalla fantasia di scrittori distopici: ogni società, in sostanza, ha il suo Winston Smith e non necessariamente riesce a domarlo.
Sul tema si è espresso in maniera esemplare il sociologo francese Émile Durkheim, il quale ne Le regole del metodo sociologico così scrive:
[…] un’uniformità così universale e così assoluta è radicalmente impossibile, perché l’ambiente fisico nel quale ognuno di noi è immediatamente situato, i precedenti ereditari, le influenze sociali da cui dipendiamo variano dall’uno all’altro individuo, differenziando quindi le coscienze. Non è possibile che tutti si assomiglino a tal punto, per il semplice motivo che ognuno ha il proprio organismo e che gli organismi occupano settori diversi dello spazio. Ecco perché, anche presso i popoli inferiori – dove l’originalità individuale è ben poco sviluppata – essa non è però mai del tutto assente.
E poi, in definitiva, è desiderabile che tutti si comportino allo stesso modo? Che tutti siano uguali agli altri? La risposta, a ben pensarci, non può che essere negativa. E, allora, perché continuiamo a pronunciare, soprattutto in ambito pedagogico, questo rancido luogo comune? Non c’è un motivo. Semplicemente siamo soggetti alla forza dell’abitudine e alla convinzione che ciò che è stato ripetuto in passato debba avere imperituro valore nel presente e nel futuro. Basterebbe, in realtà, un briciolo di senso critico per renderci conto che la saggezza del “Se tutti facessero così” nasconde un desiderio grigio e inaccettabile: il desiderio che tutti siano uguali a tutti.