Nei giorni scorsi, a Roma, ha avuto una certa eco mediatica (vedi qui e qui) un episodio accaduto nel corso di una seduta consiliare in cui il consigliere Giuseppe Calendino, dei Fratelli d’Italia, si è rivolto nei confronti di un altro consigliere, Daniele Torquati (PD), con il termine “mongoloide”. «Sono semplicemente schifato del fatto che un essere umano, nel 2017 e dopo anni di battaglie per l’inclusione sociale delle persone con disabilità intellettiva, ancora riesca ad usare parole come “mongoloide” per insultare. Un bambino mai cresciuto e poco educato!» ha commentato Torquati.
Puntuali le proteste dell’Aipd (Associazione italiana persone down) che ha chiesto le scuse immediate da parte di Calendino, denunciando la grave offesa nei confronti delle persone con sindrome di Down e le loro famiglie. «Sentire utilizzare ancora il termine “mongoloide” in senso dispregiativo è per noi un duro colpo ed un tuffo indietro in un passato che non vorremmo più rivivere» ha aggiunto l’AIPD.
L’episodio è interessante sia per il sociologo del turpiloquio sia per il sociologo della devianza. Per il primo, è un indicatore della “tenuta” di termini offensivi nei confronti delle persone con disabilità; termini nati come alti – “mongoloide” era un tempo considerato un termine scientifico – e poi degradati nel senso comune fino a diventare parte dell’armamentario verbale dei bambini (e non solo, come è evidente da questo episodio). Per il secondo, si connette alla costruzione sociale della figura del mongoloide da parte del suo inventore, John Langdon Down, avvenuta su basi puramente razziste e spesso del tutto misconosciuta.
Mancando qui lo spazio per approfondire la questione, rimando, per la prima interpretazione, al mio Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia (2007). Per la seconda al più recente (2014) Mancini, mongoloidi e altri mostri. Cinque casi di costruzione sociale della devianza.
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